Il disegno di legge per l’Università è bene impostato, ma ha bisogno di correzioni, con riferimento ai ricercatori a tempo indeterminato attuali che ottengano un’abilitazione nei futuri concorsi di II fascia, di professore associato o – caso meno frequente – di I fascia, cioè di ordinario. Secondo le nuove norme, le facoltà universitarie potranno chiamare i vincitori di tali concorsi, per coprire loro posti vacanti, ma lo potranno fare solo nell’ambito di due quote percentuali del 30% del totale di tali posti: una riservata a personale già di ruolo nella facoltà, e l’altra riservata a personale esterno. Però accanto a queste chiamate per quote che riguardano, in particolare, i ricercatori attuali a tempo indeterminato (e i docenti di II fascia per i concorsi di I fascia), ve ne sono altre due denominate come “chiamate dirette”, che riguardano i docenti italiani che hanno avuto un’abilitazione all’estero e i nuovi ricercatori a tempo determinato di nuova istituzione che abbiano conseguito l’abilitazione nei futuri concorsi di II o I fascia.



Entrambe queste tipologie di chiamata diretta determinano una disparità di trattamento a danno dei ricercatori a tempo indeterminato che conseguono una di tali abilitazioni, che non fruiscono della chiamata diretta ma possono essere chiamati solo all’interno di quote. Non mi pare che esista una ragione oggettiva per giustificare queste discriminazioni contro i ricercatori a tempo indeterminato, ed a favore di quelli a tempo determinato. Non mi sembra che i ricercatori a tempo determinato possano vantare uno status giuridico o/e una qualificazione professionale prioritaria su quelli già in ruolo a tempo indeterminato. E non mi pare ci sia un interesse al buon funzionamento della pubblica amministrazione nell’area dell’istruzione superiore che comporti di privilegiare i futuri ricercatori a tempo determinato rispetto a quelli attuali a tempo indeterminato.



È ovvio che molti potenziali candidati a ricercatore a tempo determinato sono interessati a concorrere a questa posizione solo se possono sperare di poter ottenere in futuro una sistemazione in pianta stabile nell’Università. Ma se ciò comporta il sacrificio della carriera dei ricercatori a tempo indeterminato si genera una disparità di trattamento che comporta di rinunciare a un capitale umano già formato, per il solo scopo di incentivare la formazione di nuovo capitale umano di cui ancora si ignora il valore.

Dal punto di vista del diritto, si dà una corsia privilegiata ai ricercatori a tempo determinato, rispetto a quelli a tempo indeterminato, nonostante che i primi abbiano uno status giuridico inferiore ai secondi e che il vaglio della loro formazione professionale sia minore di quello a cui sono sottoposti i ricercatori confermati a tempo indeterminato. Questi hanno già subito uno scrutinio di idoneità ai fini della loro appartenenza ai ruoli universitari permanenti, mentre i ricercatori a tempo determinato, che abbiano fruito del rinnovo del loro contratto, avranno avuto solo un vaglio riguardante la loro idoneità a permanere per un altro triennio nella PA come docenti universitari.



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Va aggiunto che i ricercatori a tempo indeterminato dell’attuale ordinamento generalmente svolgono già funzione di docenza universitaria e il loro curricolo didattico, necessariamente, sarà più ricco di quello dei nuovi ricercatori a tempo determinato, che ancora non hanno prestato servizio nelle Università. I primi, quando conseguiranno un’abilitazione a professore di II o I fascia, avranno più anni di docenza universitaria e di esercizio di altre funzioni universitarie che i ricercatori a tempo determinato, la cui nomina è necessariamente più recente.

 

Una particolare grave disparità di trattamento emerge dall’articolo 9 paragrafo 5, con riguardo ai  ricercatori a tempo indeterminato non confermati nei confronti di ricercatori a tempo determinato, che abbiano ottenuto una idoneità a professore di II o (in via di pura ipotesi) di I fascia. Infatti essi potrebbero essere chiamati solo all’intermo delle quote di legge, mentre i ricercatori a tempo indeterminato, che avessero ottenuto un’idoneità, fruirebbero della chiamata diretta. Ora i ricercatori a tempo indeterminato non ancora confermati sono in realtà ancora a tempo determinato, in quanto solo dopo la conferma entrano in permanenza nei ruoli universitari. E ciò non ostante non fruirebbero della chiamata diretta che invece competerebbe ai ricercatori a tempo determinato.

 

 Mi sembra che da tutto ciò consegua che la norma dell’articolo 9, paragrafo 5 è viziata da incostituzionalità, in relazione all’articolo 3, comma 1 della Costituzione che stabilisce la parità di trattamento dei cittadini e all’articolo 97, comma 1, che stabilisce che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Questa norma sarà suscettibile di ricorso ai tribunali amministrativi e alla Corte costituzionale da parte di ricercatori a tempo indeterminato che subiscano una delle discriminazioni da essa stabilite. Una mina vagante che può far crollare l’intero impianto di questa nuova normativa con conseguenze negative che essa davvero non si merita, dato il pregevole contenuto innovativo, da cui è pervasa.

 

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Certo l’istituto dei ricercatori a tempo determinato ha le sue buone ragioni. Nell’ordinamento precedente a quello attuale, in cui gli assistenti universitari sono stati sostituiti dai ricercatori (una innovazione che si è rivelata irrazionale, in quanto ai ricercatori si è poi chiesto di fare i docenti), gli assistenti universitari erano divisi in tre categorie: assistenti volontari a titolo gratuito, assistenti incaricati retribuiti, con un contratto annuale, rinnovabile di volta in volta, assistenti di ruolo, ma con una permanenza nel ruolo in questione assicurato solo per 10 anni. Il loro posto diventava permanente se essi entro il decennio avevano acquisito una libera docenza. In tal caso assolvevano a funzioni analoghe a quelle attuali dei professori associati, con uno status analogo. Se non avevano ottenuto la libera docenza e non avevano vinto un concorso di cattedra, dovevano scegliere fra le dimissioni o il passaggio a un’altra amministrazione pubblica.

 

E tale potrebbe essere la norma, per i nuovi ricercatori a contratto, con contratto rinnovato. Essi, ove non abbiano conseguito, entro il periodo contrattuale massimo, una abilitazione alla docenza, dovrebbero poter accedere a una diversa attività nella Pubblica Amministrazione, previo scrutinio di idoneità. Qualora avessero conseguito un’abilitazione a docente di II fascia o di I fascia e non avessero ottenuto una chiamata entro un dato periodo di tempo, nell’ambito di una delle due quote, rispettivamente riservate agli interni e agli esterni, dovrebbero poter aspirare a un ruolo diverso nella PA, senza bisogno di previo scrutinio, con un grado maggiore di coloro che sono privi di abilitazione. Essi dovrebbero poter rimanere come professori a contratto nelle università.

 

A mio parere peraltro la durata complessiva massima dei contratti a tempo determinato dovrebbe essere di 8 anni e non di sei: tre nel primo periodo, e 5 nel successivo eventuale. Ciò sia per dare a questi ricercatori un maggior tempo per prepararsi all’abilitazione, e sia per evitare troppo rapidi turnover nei corpi insegnanti che danneggiano la continuità dei corsi di insegnamento e generano un eccesso di concorsi. Con questo sistema i ricercatori a tempo determinato non avrebbero un trattamento privilegiato, né ai fini dell’abilitazione a professore, né ai fini della chiamata nelle università rispetto ai ricercatori a tempo determinato. E non si creerebbe l’esigenza di dar loro un trattamento di favore, per non lasciarli sulla strada e per non perderli come docenti, in quanto avrebbero comunque uno sbocco nella PA e una possibilità di insegnare nelle Università: peraltro sulla base di criteri di merito e di opportunità, senza le attuali situazioni di amovibilità che premiano coloro che non fanno più ricerca e che generano un ostacolo al rinnovamento dei corpi docenti.