Il disegno di legge di riforma del sistema universitario è in discussione al Senato. Il suo iter è ancora lungo e cosa ci sia da aspettarsi alla fine non è dato sapere, anche se l’impianto di fondo appare delineato. Molti i plausi, che sottolineano la svolta di una riforma che taglia gli sprechi, riordina il diritto allo studio, rimette mano al reclutamento. Ma molte anche le critiche, che puntano il dito contro l’impianto centralistico del decreto e lo schiaffo all’autogoverno.
«Il testo attuale del ddl è piuttosto lontano dalle idee originarie – dice a ilsussidiario.net l’ex ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer -: è diventato un testo farraginoso, burocratico e pieno di centralismo. E questo lo appesantisce non poco, minacciando di renderlo inadatto alle sfide che il nostro sistema si appresta ad affrontare».
L’autonomia va a farsi benedire, professore?
Non è solo questione di autonomia. È la fisiologia stessa della vita accademica che viene intaccata, col rischio di neutralizzare gli effetti virtualmente positivi della riforma. Mentre le idee originarie che aveva manifestato il ministro Gelmini avevano dei punti decisamente positivi. La mia opinione è che bisognerebbe tornare a quelli.
Il testo del ddl è ora in Commissione al Senato. Cosa dovrebbe cambiare?
Primo, bisognerebbe evitare di comprendere in un unico testo, che risulta enorme, tutti gli aspetti che attualmente ne fanno parte. L’università ha bisogno di interventi più mirati. Secondo, c’è una questione di metodo: bisognerebbe trovare un terreno di intesa tra maggioranza e opposizione. La condizione politica per farlo è quella di poter lavorare su un testo aperto, mentre il governo ha chiuso, o quasi, il testo al confronto. A mio parere su un tema così rilevante è invece essenziale che la maggioranza trovi prima con l’opposizione il terreno su cui costruire, insieme, il testo stesso.
Ha detto che il ddl di riforma contiene troppo. Lei da dove avrebbe cominciato?
Mi sarei limitato in prima battuta a due punti che considero cruciali e prioritari rispetto agli altri, vale a dire la governance e la valutazione. Se non si affronta prima di tutto la governance, eventuali decisioni in altri campi avrebbero esito negativo nella pratica attuativa. E il motivo è che oggi la composizione degli organi accademici è troppo corporativa ed interna, e confonde la gestione scientifico-didattica con la gestione strategica e di amministrazione. Questi due aspetti invece vanno separati di più.
Veniamo al primo: la governance.
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Per quanto riguarda la gestione strategico-amministrativa è indispensabile la presenza, negli organi, dei rappresentanti degli stakeholders: l’università non può non alimentarsi di interessi più ampi di quelli accademici. Su questo aspetto nel campo della maggioranza e in quello dell’opposizione si sono già esercitate ricerche di soluzione. Occorre mettersi a un tavolo parlamentare e farle emergere, senza che nessuna delle due parti ponga veti iniziali.
Il secondo tema, ha detto, è la valutazione.
Con la valutazione si sono fatti importanti passi avanti, perché Mussi aveva disciplinato l’Anvur, poi il successivo governo l’aveva sospesa, ora il ministro Gelmini l’ha reintrodotta nel pacchetto. Ma anche in questo caso occorrerebbe trovare un terreno comune di confronto per garantire la bontà del risultato e dare subito attuazione a forme indipendenti e autonome di valutazione di tutta l’attività: didattica, scientifica, amministrativa, strategica. Del sistema universitario complessivo, ma anche dei singoli atenei e delle singole attività all’interno dell’ateneo. Perché oggi la politica universitaria si fa prima di tutto con la valutazione.
Lei insiste su un accordo tra maggioranza e opposizione, perché?
Trovare un accordo su questi due punti sarebbe un fatto storico. Anche perché in entrambi i casi le misure da adottare non sono popolari nel mondo accademico. Incontrerebbero reazioni ostili in quegli ambienti che da una gestione improntata al corporativismo hanno tratto vantaggi inaccettabili. Queste forze non rinuncerebbero ai privilegi consolidati e soltanto uno schieramento politico molto ampio potrebbe resistere alle pressioni contrarie. Pressioni che potrebbero anche avere la forza di attenuare una serie di misure radicali ma necessarie. Raggiungere un buon risultato è nell’interesse di entrambi gli schieramenti, ma occorre mettersi nelle migliori condizioni per ottenerlo.
Lei trova che questa riforma sia eccessivamente centrata sul risparmio di spesa pubblica?
Questa riforma dell’università, a differenza di quella scolastica che è stata prevalentemente di risparmio, era partita diversamente. Non la riforma, ma gli interventi economici svolti dal governo sono stati di riduzione della spesa, nella ricerca e nell’università. Per questo dico che dove ci sono sprechi non si deve esitare, ma gli sprechi sono piccola cosa rispetto al bisogno finanziario vero: l’Italia è un paese che ha un rapporto spesa universitaria/Pil vergognoso. Le cifre parlano chiare: siamo ampiamente sotto il minimo vitale. La questione del finanziamento della ricerca – soprattutto della ricerca nel suo complesso, universitaria e non – è oggi cruciale e si può risolvere solo con una netta inversione di tendenza, altrimenti siamo destinati a sprofondare.
Parlare di risorse è sempre molto difficile. Lo dica al ministro Tremonti.
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Un momento, un conto sono gli sprechi, un conto gli investimenti. Ci vogliono molti più soldi: non si trovano? Si cerchi altrove. Ci sono e si possono trovare facendo sacrifici in altri campi. In periodi di carestia i contadini hanno risparmiato su tutto fino a fare la fame, ma mai nelle sementi, perché avrebbe voluto dire precludersi l’avvenire. È il nostro caso, mi pare.
Cosa ne pensa della disciplina del reclutamento di docenti e dei ricercatori?
Dico solo che mettere questa disciplina insieme alle altre due, governance e valutazione, rischia di rendere difficilissima l’approvazione della legge.
È una disciplina che andrebbe stralciata?
Andrebbero prima riformate valutazione e governance. Per cambiare il reclutamento è indispensabile che la governance funzioni diversamente, altrimenti qualunque disciplina si introduca adesso il corpo accademico la gestisce a modo suo. Mi pare buona invece – e ci tengo a sottolinearlo – la politica premiale. Vanno finanziate con incentivi ed altro le situazioni, le iniziative e le ricerche che rispondono a criteri di serietà e produttività.
E questo la riforma lo fa, secondo lei?
Lo accenna. Lo pone come un obiettivo e questo è un fatto positivo. Ma se poi quel testo lo si osserva nel suo complesso, si vede il rischio che anche la gestione del merito sia fatta dai corpi accademici. Sfuggendo puntualmente a logiche di qualità.
(Federico Ferraù)