«Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Quest’autorevole affermazione di Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina nel 1908, introduce alla delicata questione aperta dall’interessante articolo di Gabriele Uras relativo alla necessità di formare maggiormente i cosiddetti “adulti”, a volte poco consapevoli del loro indispensabile ruolo sociale oltre che educativo. In essa risiede la pietra d’inciampo sulla quale occorre confrontarsi senza mezzi termini. Prendere atto di una situazione decisamente a rischio per l’immediato futuro delle nuove generazioni è atto doveroso di ciascuna persona impegnata seriamente nell’osservazione di sé, come pure dei più giovani cui passare il testimone, come avviene dalla notte dei tempi. La convinzione che occorresse agire in modo sinergico e mirato è maturata negli ultimi anni grazie a letture varie sul tema dello sviluppo cognitivo dell’età evolutiva alternate ad autobiografie d’insegnanti e di medici specialisti.
Ma è proprio tra le pagine di un efficace testo semiserio intitolato Alla ricerca delle coccole perdute di Giulio Cesare Giacobbe che scorgo il nesso con le acute deduzioni dell’articolo stesso. La copertina mette in risalto la trilogia familiare dove papà e mamma, stilizzati come gli “antenati” di Carosello, tendono le braccia sorridenti al figliolo esultante in mezzo a loro. È lì dunque che si gioca il suo futuro di adulto responsabile. Così afferma l’autore che ci accompagna a ripercorrere le tappe dell’essere umano e della sua crescita, soprattutto interiore e mentale, unica e irripetibile. La somministrazione quotidiana di coccole fa bene al cervello. Lo hanno verificato anche i ricercatori in laboratorio: i topini maggiormente leccati dalle loro mamme si districano con grande abilità e giungono al cibo molto più rapidamente degli altri. Al 95% siamo il risultato di ciò che abbiamo vissuto durante i primi dieci anni di vita. Che dire poi del sano sorriso contagioso dei bambini indigenti delle favelas e degli indiani delle baraccopoli, poveri sì, ma abituati ai quotidiani massaggi intrisi di unguento, dolcemente elargiti per tradizione dalle loro silenziose mamme!
La migliore terapia preventiva al disagio esistenziale ci proviene dai popoli del terzo mondo. Va da sé che il 5% mancante è “a carico” degli incontri della vita. La scuola costituisce quindi l’avventura maggiormente significativa per ogni bambino ed è sempre più complessa la posizione di chi decide di intraprendere una professione ormai quasi unicamente al femminile. Mancano, o sono sempre più rare, le figure di riferimento maschili con tutto ciò che ne consegue. Ecco quindi il motivo della scelta del titolo del libro Perché non sarò mai un insegnante: un’eloquente affermazione estrapolata dalla raccolta di scritti degli studenti di Gianfranco Giovannone.
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Eppure una bambina ha salvato gli ospiti dell’intero albergo dove trascorreva le vacanze natalizie con i suoi genitori durante il devastante maremoto dell’estremo oriente di qualche anno fa, grazie al lucido ricordo della lezione del suo maestro di geografia. Il giovane teacher aveva spiegato chiaramente quanto fosse indispensabile l’osservazione e l’interpretazione dei segni provenienti dalla natura e la scolaretta diligente si era accorta dell’imminenza dell’arrivo di una gigantesca onda anomala. Quelle strane e inconsuete avvisaglie, colte lì per lì grazie ai veloci connettivi logici, hanno sortito il provvidenziale effetto di fare evacuare centinaia di persone. Meritatamente è stata premiata l’efficienza del suo maestro, ma di quanti altri potremmo narrare le gesta, quasi eroiche, delle fatiche quotidiane in assenza dei riflettori che abbagliano, come in televisione, chi recita la parte dell’esperto di turno?
Pur tuttavia una recente indagine IARD ha constatato che gli insegnanti sarebbero “orgogliosi di stare in cattedra” e rifarebbero il loro tanto bistrattato lavoro, di cui alcuni si vergognano al punto da non dichiararlo durante le meritate vacanze estive, quasi fossero un “periodo di convalescenza”. L’opinione pubblica continua a considerarlo un rilassante lavoro part time, ignorando che esso prevede le lezioni da preparare, i compiti da correggere nonché le interminabili riunioni dove spesso si consumano i “deliri narcisistici” dei più creativi, originali e motivati, tanto che – a confronto – i capponi di Renzo, predestinati a bollire in pentola, ci apparirebbero docili come agnelli. Eppure gli stessi insegnanti si erano spesso dichiarati esasperati dalle pretese di genitori iperprotettivi soprattutto nei confronti dei numerosi figli unici. Del resto anche la maternità è un’altra “professione” poco gettonata, tanto che il nostro ministro è già tornato al lavoro e rilascia interviste sulle quali avrei qualche perplessità, mentre restiamo ancora in attesa della risposta all’interrogazione parlamentare sul disagio mentale di origine professionale inoltrata a dicembre scorso.
Leggendo i grafici e tentando di interpretarli, noto un divario abnorme per quanto concerne il grado di soddisfazione. Dall’indagine emerge che l’82,1% degli insegnanti dichiara “lo rifarei”. Solo il 13,3% “vorrebbe cambiar lavoro” e il 12,3% “vorrebbe andare in prepensionamento”. Perché allora non garantire anche ai docenti di ogni ordine e grado un anno sabbatico dignitoso e remunerato come peraltro avviene – obbligatorio – negli Usa ogni sette anni e di cui già usufruiscono i nostri emeriti professori universitari che “resistono” stoicamente ben oltre la soglia dei settant’anni? Meglio riprendere fiato mentre si nuota nel mare mosso delle emozioni e dei sentimenti contrastanti propri e altrui. Ma anche per lasciare aggiornare chi, pervicacemente e nonostante le numerose avvisaglie di varie somatizzazioni, resta aggrappato alla sua scuola, isola felice e unico rifugio sicuro del naufrago idealista che non demorde.