È pregevole l’occasione offerta da ilsussidiario.net per discutere temi fondamentali per la scuola di oggi e di domani, favorendo un dibattito e un confronto veri. Rispetto a quanto fin qui dibattuto nascono spontanee tre riflessioni.
All’indomani dell’emanazione dei Regolamenti per la scuola secondaria di II grado il mondo degli addetti ai lavori scopre che gli impianti sottesi al nuovo ordinamento dei Licei è sensibilmente “altro” rispetto a quelli degli Istituti tecnici e dei professionali. Evviva! Ci voleva molto ad immaginare che cercando di mettere insieme gruppi di lavoro legati a scenari culturali e pedagogici diversi (potrebbe anche non essere influente il particolare che siano stati nominati da ministri di opposte appartenenze), scenari mai esplicitati e discussi nel tentativo di trovare una linea comune e condivisa almeno a livello di linguaggio, si sarebbe arrivati a questo punto di strabismo prospettico? Come dire: un costruttore, non avendo ben chiaro che tipo di palazzo vuole costruire, decide di affidarsi a due architetti diversi, a ciascuno dà un incarico separato, senza costringerli a sedersi intorno ad un tavolo. Certo gli architetti in fase di progettazione sono entrambi molto contenti, il costruttore non ha grane, e un irenico ottimismo imperversa; peccato che il palazzo, alla fine, venga fuori asimmetrico!
E qui siamo al punto: per un’azione di riforma della scuola non si tratta di affidarsi all’ultimo pedagogista alla moda né di alimentare inutili antitesi tra “disciplinaristi” e “competenzialisti” (abbandoneremo mai questa persecuzione dello schieramento aut-aut, guelfi o ghibellini, senza alternative?), ma di mettere in campo un’idea, un progetto di scuola e cercare poi di dargli concretezza, con tutti gli indispensabili apporti ed aggiustamenti necessari. Tà eautou pràttein, diceva Platone essere il fondamento della giustizia, fare ciascuno la propria parte: il campo della pedagogia è definito dalla sua stessa etimologia, da quell’agogein che marca lo stacco tra l’educazione (e la scuola) che ci sono e l’educazione (e la scuola) che dovrebbero esserci, per essere davvero al servizio della persona e non il contrario.
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Così come il campo della fattibilità e della realizzazione di questo passaggio, tipico della politica e dell’amministrazione, non può non vedere in campo chi dell’educazione (e della scuola) è esperto, vuoi da un punto di vista disciplinare e metodologico, vuoi da un punto di vista organizzativo e amministrativo. A confondere queste specificità si rischia la… confusione, appunto. Detto in sintesi: aver fatto lavorare separatamente commissioni diverse, con prospettive diverse, senza una linea comune e condivisa rispetto all’impianto generale ha rappresentato la garanzia della pax sindacale in questi ultimi anni, ma potrebbe rivelarsi l’insanabile criticità non tanto dei nuovi Regolamenti e, soprattutto, delle Indicazioni che dovrebbero seguirne, quanto e soprattutto della qualità dell’educazione e dell’istruzione reale che si svolge nel nostro paese.
Seconda riflessione. Esaltare separatamente conoscenze e competenze individuando nell’acquisizione delle prime l’unico baluardo alla deriva “metodologista” o nel perseguimento delle seconde la rincorsa politicamente corretta alla vulgata Ue sulle competenze, è operazione improduttiva. Nel primo caso si rischia di rinforzare un atteggiamento fin troppo presente nella scuola (e in quella secondaria di II grado in modo particolare) che vede il docente come “dispensatore” di un sapere, certo necessario, certo epistemologicamente fondato, ma insopportabilmente lontano da quel “senso personale” che dovrebbe acquisire per diventare fermento educativo e, come tale, pervasivo dell’agire personale di ciascuno, tanto lontano da essere (quando va bene) rapidamente memorizzato e altrettanto rapidamente dimenticato. Vale a dire: generatività educativa del sapere pari a zero. Nel secondo caso si colloca la competenza come terzo elemento (dopo le conoscenze e le abilità) del processo di apprendimento, intendendola (oppure, ed è peggio ancora, facendola intendere) come una sorta di prestazione pre-determinabile come conseguenza dell’esercizio degli inflazionatissimi sapere e saper fare, un saper fare al quadrato, insomma, la cui relazione con la libertà e la responsabilità personali che ciascun allievo mette in campo nel suo manifestare competenze nella scuola e fuori della scuola, nella vita, è davvero difficile intravedere.
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Molto più costruttivo, invece, sarebbe stato riprendere la strada lucidamente indicata dalla L. 53/03 e che le pregiudiziali ideologiche hanno sciaguratamente impedito di percorrere: non trasformare le competenze in un oggetto culturale prestazionistico, solo un po’ più operativo delle conoscenze e della abilità, non introducendo soluzione di continuità qualitativa tra i tre concetti, ma ribadire il contrario: le competenze non sono oggetti culturali, ma il modo con cui ciascun allievo affronta e risolve in maniera anche socialmente soddisfacente (quindi sottoposto alla valutazione di esperti), in situazioni autentiche, compiti, progetti personali e sociali, problemi di diversa natura (sottolineando come affrontare in maniera pertinente un problema conoscitivo disciplinare è a pieno titolo manifestazione di competenza!).
Questa accezione della competenza personale, rendendo inutile qualsiasi “terza” colonna che riscriva in un’insopportabile tautologia pedagogistico-operativa i contenuti disciplinari indispensabili per favorirne lo sviluppo, rimanda precisamente all’autonoma responsabilità dei docenti nella scelta delle azioni metodologiche necessarie per tradurre ed utilizzare i diversi saperi disciplinari, dati dalle norme generali, in percorsi unitari e dotati di senso per gli allievi che concretamente si trovano di fronte e rispetto ai quali sono chiamati a mettere in campo una precisa ed istituzionalmente corretta intenzionalità educativa. Certo, è inutile nasconderci che l’assunzione di siffatta accezione personalistica del concetto di competenza avrebbe portato con sé la necessità di cambiamenti talmente radicali e impegnativi nella prassi scolastica ordinaria da suscitare il rifiuto. Se ne possono citare due, i più evidenti ed impegnativi, a titolo esemplificativo.
Il primo. La competenza personale, a differenza di quella oggettualizzata e prestazionistica di cui si continua a discutere, non è valutabile con strumenti come il voto o la pagella. E nemmeno con schede o certificazioni quali ostinatamente il ministero continua a produrre (si veda quella per la certificazione dell’obbligo). Avrebbe necessitato di osservazioni costanti e critiche del processo di insegnamento-apprendimento che solo un vero Portfolio che avesse coinvolto docente, studente e famiglia avrebbe reso possibile. Certo, immaginare di introdurre un Portfolio delle competenze personali (se non piace questo nome perché troppo “morattiano”, lo si può chiamare anche “pinco pallino”, importante è intenderci su che cos’è e a che cosa serve questo strumento) è un bell’azzardo. Non lo si può fare tutto d’un colpo (si è visto), ma ci si può incamminare su questa via che, ancorché ardua, ha un pregio: è dotata di senso.
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Secondo cambiamento indispensabile per poter parlare di competenza personale: avviarsi ad un utilizzo sistematico di una didattica laboratoriale vera, che tenga insieme esattamente i due elementi della dibattuta questione, il sapere e l’agire consapevole e responsabile che di esso si alimenta. Siamo molto lontani, nella sostanza più che nelle parole, da quelle attività laboratoriali insistentemente poste e riproposte nei Regolamenti e nelle Indicazioni. Anche in questo caso o ci mette d’accordo sul senso di questa espressione e ci si avvia ai non facili cambiamenti metodologici ed organizzativi che richiede, o ci si limita a rilanciare un concetto tanto evergreen, quanto inflazionato e privo di qualsiasi incidenza reale.
Terza ed ultima riflessione: è quasi un truismo affermare che, per avviarci sulla strada delle competenze personali, la preparazione degli insegnanti, iniziale e in servizio, sia strategica. Non è forse legittimo, allora, chiedersi perché un Decreto legislativo sulla formazione iniziale e in servizio dei docenti, costato tre anni di intenso lavoro bipartisan, praticamente concluso nei suoi aspetti organizzativi nel 2005, sia stato, prima, buttato al macero per non esaltanti interessi politici e sindacali e, subito dopo, totalmente ignorato per rinfocolare inutili e pericolosi revanchismi disciplinaristi e creare un vuoto normativo che inserisce un’ulteriore, inspiegabile deprivazione nel mondo della scuola? Non è altrettanto legittimo immaginare per un attimo a che punto professionale saremmo ora se non fosse mai stato firmato quell’inopinato accordo Aran-sindacati che, nell’estate 2006, a fronte di risorse economiche disponibili e di una normativa definita, ancorché migliorabile, dichiarò contrattualmente illegittima la figura del docente coordinatore-tutor?