Alla fine i nodi vengono al pettine. La normativa voluta dal ministro Gelmini relativa all’obbligo di avere conseguito il 6 in tutte le materie per essere ammessi all’esame di terza media e della maturità sta mostrando la sua insostenibilità.

Un liceo di Milano dichiara di ammettere anche allievi che non hanno la piena sufficienza. Da notizie di stampa il ministro avrebbe detto che “con un 5 non si boccia nessuno”, smentendo con ciò se stessa, poiché le leggi sono per loro natura diverse dalle esortazioni o dagli inviti e generalmente richiedono di essere applicate. Il buon senso, che a suo avviso dovrebbe essere utilizzato, è senza dubbio ciò di cui le scuole in questo momento stanno facendo uso a piene mani, portando a 6 i 5 ed i 4, con un falso in atto pubblico a livello di massa.



Il palcoscenico è quello dell’esame di maturità, dove il discorso è più serio, vista la persistente maggiore relativa importanza dell’esame, ma soprattutto – tuttora – del suo punteggio finale. Lo stesso tormentone affligge anche i consigli di classe delle Terza media, che però se lo stanno risolvendo in silenzio nel modo detto sopra.



Il dilemma infatti è: dichiarare quanto non è e non può essere palesemente vero – tutti sufficienti in tutto – oppure procedere a bocciature (nel caso delle classi intermedie) o a non ammissioni (nel caso di esami) in quantità socialmente insostenibili. Insostenibili non tanto per i motivi di consenso, che interessano in realtà solo i politici, ma per quelli relativi ai costi sociali ed economici.

La nuova normativa sulla valutazione è stata a lungo presentata dal ministro come uno strumento che avrebbe reso di nuovo seria la scuola italiana, afflitta da un eccesso di lassismo. Senza dubbio il ripristino dei voti può aver obbligato soprattutto la scuola primaria a ridare importanza a misurazioni e dichiarazioni attendibili degli apprendimenti. Peccato, però, aver voluto rispolverare, per motivi meramente simbolici di ritorno al buon vecchio passato, l’inefficace scala decimale, invece di quella a 5 scalini, ormai diffusa anche a livello normativo fuori d’Italia e che è poi quella che le scuole usano. Anche qui la “costituzione” reale è diversa da quella “formale”.



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Ma, soprattutto, peccato aver voluto a tutti i costi legare la misurazione alla valutazione, sia a proposito delle promozioni che delle ammissioni agli esami! Mentre la misurazione deve accertare e certificare nel modo più attendibile e chiaro possibile i livelli raggiunti, la valutazione deve prendere in considerazione altri fattori di percorso e di contesto, quali per esempio ammettere o – perché no? – non ammettere agli esami. Misurazione e valutazione non debbono essere sovrapposti, sennò si genera confusione ed illeggibilità della misurazione-valutazione interna delle scuole.

 

Tornando all’obbligo del 6 in tutte le materie, si può pensare che un po’ di timore riesca ad innalzare un po’ il livello degli apprendimenti. Ma la necessità per le società avanzate come la nostra è quella di scolarizzare tutti, anche se in modi diversi. Di fronte però ad una popolazione giovanile così ampia e culturalmente e socialmente variegata e differenziata, che si trova davanti tanti campi diversi su cui misurarsi e su cui essere valutata, è difficile pensare che tutti in tutti i campi riusciranno davvero a saltare l’asticella della soglia-base. Le geremiadi sui diversi tipi di intelligenze e di vocazioni dovrebbero averci insegnato qualcosa in proposito.

 

L’irrigidimento si rivela inefficace oltre un certo (basso) limite; anzi, ottiene il risultato perverso di alterare completamente la misurazione pubblica fatta dalle scuole dei livelli effettivamente raggiunti dagli allievi e, quindi, la consapevolezza personale e sociale dei livelli stessi.

Si ispessisce dunque la nebbia in Val Padana. Le valutazioni esterne dell’INVALSI, che si stanno positivamente sviluppando, pur con tutti i loro meriti, non possono essere l’unico strumento di lettura attendibile di quanto sanno i nostri ragazzi.

 

 

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