Caro Sussidiario,

Questa volta ti mando le mie osservazioni in forma di lettera, perché contrariamente alle mie abitudini intendo abbandonarmi a uno sfogo, benché la mia intenzione iniziale fosse quella di intervenire nel dibattito sul Regolamento per la formazione degli insegnanti. Lo farò, magari, ma prima permettimi di essere poco diplomatica e per niente scientifica.



In maggio, un collega americano, esperto non solo di teoria ma di pratica e politiche educative, è stato in Lombardia, dove ha visitato una ventina di scuole e ha parlato con molti esperti e operatori. Con un mezzo sorriso mi ha detto “Che strano: la posizione dei sindacati è che va tutto malissimo, per cui non bisogna cambiare niente”.



Forse c’era dell’ironia in questa sua affermazione, ma non posso non pensare che in una sola, folgorante frase ha colto benissimo il vero problema del sistema scolastico italiano: una diffusa cultura della lamentazione che non sa mai passare al piano applicativo.

Io non difendo la riforma a tutti i costi: anzi, dopo tutti questi anni in cui mi sono occupata di scuola e di politiche educative, ho maturato la convinzione che le riforme cosiddette “di sistema” siano sostanzialmente inutili.

La prima proposta di riforma della scuola secondaria risale al 1948: il proposto riordino dovrebbe entrare in vigore nel settembre prossimo. Possibile che in sessant’anni non ci sia stata la volontà politica o siano sempre mancate le condizioni (economiche, tra l’altro) per attuare una riforma che in altri paesi è stata fatta due volte, e in alcuni tre volte?



C’è una logica negli eventi, mi sono convinta: e la riforma della secondaria non è stata fatta perché bastavano gli adattamenti (le “innovazioni senza riforma”) a consentire al sistema di rispondere alla domanda della società. Domanda che ha subito massicce trasformazioni, anche solo quantitative. E oggi? La risposta che mi do è che basterebbero due interventi: uno esiste e va potenziato, ed è l’autonomia delle scuole, l’altro viene continuamente rimandato ed è oggetto di snervanti aggiustamenti, ed è l’azione sugli/per gli insegnanti.

Il fatto è che noi tendiamo ad attribuire alla Riforma caratteristiche salvifiche: con la nuova ottima e perfettissima struttura creata dalla legge, tutti problemi saranno magicamente risolti. Tanto è vero che nessuno chiama le leggi con il loro numero, ma con il nome del ministro proponente, il cui nome (come accadeva con i Faraoni sulle Piramidi) veniva scalpellato accuratamente dal successore.

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Naturalmente sappiamo che non è così, però il crederlo ci esenta da molte responsabilità, tipo il capire quanto costa attuare una riforma, da quali provvedimenti di transizione deve essere accompagnata, quali meccanismi di valutazione e adattamento si devono mettere in opera e così via.

 

Ora, non solo la Riforma, in assenza di un piano applicativo, non garantisce un bel niente, ma addirittura rischia di creare una massa di delusi che abbasseranno ulteriormente la motivazione a produrre un servizio di qualità. Una riforma, una buona riforma con la “r” rigorosamente minuscola, può creare le condizioni perché la scuola migliori: ma a mio parere uno solo è l’elemento irrinunciabile, e sono appunto gli insegnanti.

 

Si può fare scuola senza Internet, senza attrezzature, perfino senza scuola, ma non senza insegnanti. E ancora una volta mi pare che questo elemento sia stato gestito malissimo: nel 1974 Barbagli sosteneva che gli insegnanti erano “laureati in eccesso riconvertiti”, e sembra che si continui a pensare alla “questione insegnante” solo in termini di posti di lavoro, di precari, di graduatorie. Sacrosante preoccupazioni, per carità: ma la scuola non è (solo o esclusivamente) un mercato per il lavoro intellettuale in cui lavorano circa 850mila docenti mai veramente selezionati o valutati: è un luogo in cui il lavoro dovrebbe essere finalizzato a quella qualificazione della persona (umana e lavorativa) che tutti considerano, almeno a parole, il problema centrale della società europea.

 

Sono in grado di sostenere con fondati argomenti, e l’ho fatto più volte, che gli insegnanti sono troppi, che il modo di reclutarli e di formarli è insensato e contraddittorio con la maggior parte delle asserzioni sull’educazione, che la mancanza di un sistema di valutazione e di una carriera rende poco desiderabile una professione la cui importanza sociale è insostituibile, ma queste affermazioni lasciano il tempo che trovano.

 

C’era un disegno organico di formazione e reclutamento, quello che va sotto il nome di “progetto Aprea”, che tentava una riqualificazione complessiva del sistema in una direzione innovativa. La proposta che esce adesso, relativa alla formazione, smentisce molti degli spunti innovativi presenti nel testo iniziale.

 

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Non voglio entrare qui nel dettaglio, anche perché il mio parere su ciò che è positivo e ciò che non lo è differisce in modo sostanziale dalle valutazioni che ne ha dato su queste stesse pagine uno di principali estensori del progetto stesso. Dico solo che le esperienze internazionali più positive muovono in una direzione diversa, in particolare sul ruolo delle università e sul collegamento fra formazione, entrata in servizio e percorsi di carriera.

 

Le “solite trovate gattopardesche volte a riproporre, dietro la facciata del nuovo, il vecchio con i suoi antichi vizi”, temo, sono state in alcuni punti sostituite dal (riuscito?) tentativo di sostituire al vecchio l’ancora più vecchio. Ma ai ragazzi, ci ha pensato qualcuno? E a quegli insegnanti che mandano avanti la baracca in modo più che dignitoso nonostante una normativa penalizzante e la mancanza di ogni riconoscimento?

 

Caro Sussidiario, salvate l’insegnante Ryan: è rimasto solo a combattere una guerra che, se sarà perduta, lo sarà per amici e nemici.

 

Con osservanza,

Luisa Ribolzi

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