Ritorna, con questa ormai tarda primavera anche la stagione degli esami di Stato. E torna tutta la ritualità connessa: buoni consigli di esperti che “in limine” cercano, spesso invano, di spiegare cos’è un saggio breve; diete adeguate; sonno, per carità, regolare, niente pasticche e via di seguito. Tornano le rievocazioni letterarie dei riti iniziatici tribali cui ciascuno pensa di essersi sottoposto. Ma torna, per fortuna, anche il dibattito, quello serio, sul significato e sull’efficacia degli esami oggi. Illuminante a tal proposito è l’intervento di Cominelli su queste pagine. In quello vorrei sommessamente inserirmi.



Ho fatto per oltre trent’anni gli esami di Stato o di Maturità che dir si voglia. Commissario prima e presidente di commissione poi. Potrei scrivere un intero volume se raccogliessi nella memoria fatti e personaggi incontrati. Commissario in un importante liceo classico della Sicilia orientale mi arrivarono, non so come, alcune “raccomandazioni”. Da buon “continentale” non uso a tale pratica pensai bene di dirlo al presidente, colto ed affidabile docente di latino e greco in quel di Palermo. Mi mise la grossa mano sulla spalla e mi disse: “a me li hanno raccomandati tutti”. Iniquità diffusa, dunque, fu equità per tutti, tanto che gli esami corsero via sereni e severi ad un tempo. Nell’alta Padania invece, dopo sofferti minuti e vani tentativi di estorcere qualche affermazione in più dei timidi e sussurrati sì e no di una candidata, ricorsi alla “domanda a piacere”, ultima spiaggia. “Mi parli di una poesia del Pascoli”. La misera attaccò con un “Ics agosto” che mi stroncò senza appello. Certamente non mi sono mancate tante e tante esperienze positive di bravi commissari e di studenti seriamente preparati. Per fortuna.



“L’esame non accerta il livello reale di conoscenze/ competenze, la ‘maturità’ dei ragazzi” e “l’esame di stato non è necessario, è dannoso, perché spaccia moneta falsa per buona”, sostiene con durezza estrema Cominelli. E sono davvero in molti a chiedersi se l’esame, così come è strutturato, serva allo scopo di certificare conoscenze e competenze acquisite nel lungo (fra i più lunghi in Europa) percorso di studi degli studenti italiani. E sono pure molti quelli che lo vorrebbero nuovamente “aggiustare”, modificare in qualche modo, introducendo meccanismi di valutazione nazionali, prove oggettive, test e tutto l’armamentario docimologico in uso prevalentemente nei più svariati settori della formazione più che in quelli dell’istruzione. Ma il problema è un altro. Non è solo questione di metodo e di strumenti valutativi.



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Non è un caso che vi siano stati interventi normativi da parte di tutti quanti i ministri che si sono succeduti negli ultimi dieci anni in viale Trastevere. Cominciò, come è noto, Berlinguer che conscio delle secche parlamentari in cui finiscono spesso le leggi che riguardano la scuola (ne sa qualcosa Valentina Aprea col suo progetto) ebbe l’dea del mosaico. Interventi separati e apparentemente disorganici affidati come barchette di carta alla corrente del fiume parlamentare e che, una volta approvati, si sarebbero ricomposti in un mosaico armonico. Fu così che l’esame di Stato fu riformato senza che la scuola lo fosse nel suo insieme di sistema. E fu un errore di prospettiva gravido di conseguenze, anche se generoso. In realtà si tentò di cominciare dal tetto, ma mancavano le pareti e le fondamenta del nuovo edificio.

 

L’esame dunque continua oggi a non reggersi, non sta in piedi per nulla, perché poggia su una scuola che non è stata riformata per davvero. Farò un esempio molto concreto. Come si accertano, all’ultimo momento, con lo studente che ha il piede quasi fuori dall’uscio della scuola, le competenze acquisite se tutta, dico tutta, la nostra scuola le disconosce, se continua a fare didattica assolutamente tradizionale, frontale, affabulatoria, descrittiva e narrativa. Parlo specialmente di scuola secondaria di primo e di secondo grado, tanto per capirci. Chi progetta per competenze? Chi valuta per competenze? E si vorrebbe che, quasi per magia, agli esami conclusivi del curricolo i docenti ne diventassero capaci e capaci pure gli allievi, spesso adusi a studiare sugli appunti, a volte semplicemente dettati. Che può fare, a queste condizioni, uno strumento anche raffinato messo a punto a Frascati piuttosto che nelle singole scuole? In poche parole: dimmi come funziona la scuola e ti dirò come si fa l’esame finale.

 

L’esame gentiliano funzionava perché era coerente con un sistema scolastico fortemente élitario, che selezionava soprattutto in entrata. Quanti esami ha fatto la mia generazione e quelle precedenti la mia? Due esami alle elementari; esame di ammissione alla media, esame di licenza media, esame di V ginnasio, esame di maturità. Davvero era una vita di esami e la scuola era costruita come un lungo corso di preparazione ad affrontare dei rigorosi filtri dal vaglio stretto, dai quali doveva uscire soltanto la classe dirigente. Si sapeva, ad esempio, già al terzultimo anno di liceo che tanti canti dell’Inferno dantesco sarebbero entrati tre anni più in là nel programma d’esame. Si sapeva che i “riferimenti” di ciascuna materia, come si chiamavano i contenuti del triennio che si sarebbero portati all’esame, andavano memorizzati a dovere perché su di essi i commissari-selezionatori avrebbero martellato. Ma oggi non è così. Chi garantisce, sempre per fare un esempio, i contenuti del curricolo di ciascun allievo? E come si deve rapportare l’esame alla diversità individualizzata di quei contenuti?

 

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Allora il vero nodo della questione sta nel rendersi conto che l’esame è soltanto “uno” dei momenti del curricolo scolastico, forse nemmeno il più importante, a condizione che a monte le cose siano state impostate e fatte in maniera corretta. Se il portfolio non fosse stato banalmente esorcizzato persino come una minaccia alla privacy, se il curricolo lo scrivessero davvero le scuole autonome invece di appiattarsi su indicazioni nazionali (leggi programmi ministeriali) spesso e ancora di “vecchio registro”, se i docenti fossero attrezzati a progettare e a valutare le competenze (perché è davvero possibile e vi è chi lo fa!), se, se, se… Eccoci al dunque: una scuola riformata può reggere un esame serio e una certificazione corretta, spendibile nel mondo del lavoro così come negli studi successivi; una scuola rimasta pervicacemente da vecchio regime può solo annaspare in un mare in burrasca com’è l’epoca contemporanea.

 

Occorre perciò ricominciare daccapo, riprendere con pazienza il dibattito e il percorso della riforma. Dico di quella vera, che incide sulla didattica d’aula di tutti i giorni, che non si limita a cambiare nome al corso di studi, ma ne cambia le discipline e la loro aggregazione per area, le metodologie, gli strumenti, i luoghi. Ma per ora, all’orizzonte, nulla di nuovo e perciò a giugno rifaremo l’esame di Sato che la nostra scuola nazionale “si merita” per colpa dell’insipienza della politica e, mi spiace doverlo riconoscere, della scuola stessa.