Il dibattito che si è visto nei giorni scorsi sull’ammissione alla maturità con o senza insufficienze, conseguente al decreto del ministro che prevede l’obbligo della sufficienza in tutte le discipline, è stato affrontato già sotto diversi aspetti in numerosi organi di stampa. Mi pare, però, che non sia stato adeguatamente preso in considerazione il problema che sta a monte di tutta la vicenda: una impostazione – ancora una volta – eccessivamente statalista del nostro sistema di istruzione.



La scuola statale italiana, ormai da molti anni, cerca una improbabile quadratura del cerchio: rendersi garante legale della preparazione degli studenti che terminano il percorso di istruzione per entrare in Università o nel mondo del lavoro, pur in presenza di una forbice drammaticamente sempre più ampia.

Da una parte, infatti, stanno i ragazzi che si dichiarano (e agiscono di conseguenza) sempre più insofferenti nei confronti della fatica dello studio, degli obblighi scolastici, di un ambiente percepito sempre più distante dai propri interessi e dal mondo attuale; dall’altra, una società tecnologicamente avanzata e sempre più complessa che ha bisogno di persone non solo competenti e motivate, ma soprattutto capaci di imparare continuamente.



Nel mezzo lo Stato, col suo diploma (il famoso “pezzo di carta”) per cui si fanno talvolta “carte false”, nella speranza che possa assicurare quanto invece saranno i fatti a dover dimostrare, cioè l’effettiva esistenza di conoscenze, capacità e competenze.

Sanno tutti, ormai, che il diploma oggi vale poco o nulla dal punto di vista della preparazione sostanziale, rappresentando unicamente una sorta di lasciapassare giuridicamente valido per accedere all’Università o partecipare a eventuali concorsi; una volta fuori dalla scuola, i ragazzi riservano spesso e volentieri incredibili sorprese, capovolgendo lo schema secchione-somaro creatosi nell’arco del percorso scolastico.



Il tentativo operato dal ministro Gelmini, orientato a restituire serietà al percorso di studi sanzionando chi non si impegna adeguatamente e premiando chi merita, si scontra così con le resistenze “esistenziali” degli studenti, che non trovano ragioni adeguate per studiare quanto sarebbe necessario, e con quelle “professionali” dei docenti e dirigenti che percepiscono l’inattuabilità reale di certe direttive.

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Il risultato? Di fronte alla prevedibile “ecatombe” di non ammissioni (il 35% di studenti avrebbe una o più insufficienze) il ministro fa dietrofront affermando che alla fine è il consiglio di classe che, seppure “con buonsenso”, deve decidere (eppure è sempre stato così, fino al punto di promuovere o ammettere casi disperati); i docenti – “fatta la legge trovato l’inganno” – mascherano le insufficienze con un “sei politico” o alzano artificialmente le valutazioni prima ancora di presentarsi al consiglio di classe. E altro ancora… A cosa serve tutto questo? Solo a rendere ancora meno credibile il nostro sistema di istruzione, che è già in forte difficoltà e non ne ha certo bisogno.

 

Una soluzione interessante per risolvere il problema potrebbe essere offerta dall’abolizione del valore legale del titolo di studio; non è evidentemente una proposta nuova, ma sarebbe utile tornare a ragionarci su senza veti pregiudiziali.

 

Come già a suo tempo sostenne lo stesso Einaudi, la valutazione della preparazione di uno studente non dovrebbe essere certificata dallo Stato e dalle sue istituzioni, dovendo essere, invece, il frutto di un giudizio maturato nel mondo del lavoro o comunque là dove la persona dovrà mettere a frutto ciò che ha (o non ha) imparato. L’abolizione del valore legale del titolo di studio consentirebbe tra l’altro un miglioramento del sistema formativo in termini di merito e di concorrenzialità, eliminando con un’unica mossa qualsiasi diplomificio (che dunque non è tanto un’espressione deteriore della scuola “privata”, quanto dello statalismo vigente).

 

Difatti, una volta che uno studente si iscriva a un qualsiasi corso di studi non per conseguire un titolo con valore legale, ma esclusivamente per ottenere una solida preparazione culturale e professionale, le stesse scuole sarebbero costrette a innalzare la loro qualità, migliorando in genere la propria offerta formativa anche in un’ottica concorrenziale. E questo discorso varrebbe a maggior ragione per le università.

 

La tesi abolizionista, si sa, presta il fianco ad alcune critiche e mostra alcuni limiti se la questione viene affrontata in termini strettamente giuridici. Due dati, in particolare, sarebbero da prendere in considerazione: uno storico, l’altro di diritto europeo.

 

Andrebbe innanzitutto ricordato che il valore legale del titolo di studio ha origini risalenti nel tempo: fu proprio la nascita dello Studium generale, nel medioevo, a sigillare la nascita del valore legale del titolo, tramite l’attribuzione alle università, da parte dell’imperatore o del pontefice, della potestas doctorandi, con il rilascio della licentia ubique docendi (che non solo consentiva di insegnare in tutto l’impero ma anche di entrare nei collegi professionali).

 

È stata dunque la tradizione a introdurre il valore legale del titolo di studio, per un’esigenza di certezza e di tutela della fede pubblica, attestando in maniera ufficiale le capacità del dottore; licentia che, tra l’altro, nel medioevo valeva in orbe terrarum. Quest’esigenza di certezza è un dato non trascurabile, socialmente importante, che poggia su una tradizione millenaria.

 

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In secondo luogo, l’abolizione del valore legale incontra dei limiti nel diritto europeo, perché non bisogna dimenticarsi che il titolo di studio ha un valore legale europeo, come risulta dalla direttiva 2005/36/CE (c.d. direttiva Zappalà) sul riconoscimento delle qualifiche professionali e che modernamente assume la stessa valenza della licentia ubique docendi, consentendo la spendibilità giuridica del titolo di studio anche oltre confine. La direttiva si fonda sostanzialmente sul principio del mutuo riconoscimento e, quindi, di equivalenza, per cui ogni stato è tenuto a considerare equivalente il titolo di studio rilasciato da un’autorità competente di altro stato membro.

 

Sebbene dunque da un punto di vista giuridico la proposta di abolizione incontri alcune difficoltà, tuttavia non bisogna trascurare i motivi sottostanti a tale tesi, riassumibili nel fatto che i tempi sono cambiati e il titolo di studio oggi non rappresenta più un attestato di reale e sostanziale meritevolezza. In una situazione di istruzione di massa e di appiattimento verso il basso come quella attuale, in cui la forma ha preso il sopravvento sulla sostanza, occorrono urgentemente dei correttivi per rivalutare la qualità dell’offerta formativa scolastica.

 

Si potrebbe sostituire l’attuale diploma con una “semplice” certificazione dei risultati raggiunti in termini di conoscenze e competenze, che non costituisca più la certezza legale circa il possesso di una data preparazione culturale o culturale e professionale insieme, ma semplicemente una “fotografia” della condizioni in uscita dello studente, lasciando così a lui la responsabilità di dimostrare ciò che vale e alla società civile il compito dell’accertamento successivo. Non sarebbe più necessario dunque forzare la mano per dimostrare ciò che è indimostrabile e realizzare ciò che, dato l’assetto attuale del nostro sistema di istruzione, è irrealizzabile.

 

Insomma, una piccola ventata di libertà, che restituisse alle famiglie la responsabilità di scegliere per i propri figli la scuola che offre davvero i percorsi formativi migliori e alla società civile la responsabilità di valutare l’effettiva preparazione degli studenti, potrebbe davvero far bene a tutti. Anche allo Stato.