Vorrei intervenire nel dibattito su conoscenze e competenze ospitato dal sussidiario. Lo sforzo di distinguerle o di contrapporle, talora polemicamente, sia nell’analisi delle indicazioni ministeriali, sia nella pratica didattica, indica che proprio nel vissuto scolastico la loro stretta interazione non è sempre chiaramente percepita.



Provo a mettermi da un punto di vista dal quale il problema delle conoscenze e delle competenze acquista un diverso punto di appoggio. E lo faccio con una sottolineatura che si appoggia alla definizione di Ausubel di “apprendimeno significativo”: l’apprendimento è tale se permette al soggetto di accedere alla dimensione di senso. Di più, la conoscenza acquista significato quanto meglio si innesta nella struttura cognitiva preesistente e contribuisce ad arricchirla di nuove connessioni, oppure a ristrutturarla in modo più coerente ed organico. Solo così la conoscenza e l’esperienza incidono profondamente nel modo di essere, di pensare e di agire del soggetto, che – a sua volta – si percepisce e si riconosce arricchito e mutato. Penso che sia questo che la scuola si propone quando enuncia, fra le sue finalità, “la formazione della persona” mediante l’apprendimento dei saperi disciplinari. In questa ottica l’appropriazione del sapere non è disgiunta dalla dimensione dell’essere. E, in questa logica, i contenuti di conoscenza diventano ricchi di potenzialità formative e supporto indispensabile di competenze.



Il problema si sposta così dalla quantità di conoscenze alla possibilità che esse diventino significative per chi apprende. È pur vero che in ogni disciplina, dove i saperi sono organizzati, esistono minimi irrinunciabili, in termini di linguaggi, di procedure, di metodi, di risultati codificati e di problemi aperti; ma la professionalità del docente consiste, una volta fatto salvo lo zoccolo duro della disciplina, nel saperne scegliere e modulare i contenuti affinché esprimano al massimo le loro potenzialità formative. È dunque alla regolazione dei processi di pensiero che si fa riferimento quando si affronta il problema del successo formativo. E per questo è indispensabile avere chiarezza sulle dinamiche dei processi conoscitivi, ossia collocarsi in un modello epistemologico.



Di fatto, però, negli ultimi decenni, i modelli di apprendimento e di insegnamento sottesi ai documenti che hanno accompagnato le riforme scolastiche, e che purtroppo, a mio parere, non hanno saputo coinvolgere in modo significativo la categoria docente, hanno oscillato, pur con diverse sottolineature, fra una concezione comportamentista ed una cognitivo-costruttivista dei processi conoscitivi. Nel primo caso l’apprendimento è delineato come un processo mirato a produrre un cambiamento, relativamente stabile, nel modo di sapere, di saper fare e di essere del soggetto. L’approccio cognitivo-costruttivista , invece, mette in primo piano la mediazione che il soggetto fa rispetto all’esperienza che vive. Alla sua base c’è la centralità del soggetto che apprende, con la sua singolarità – risultato dell’intreccio fra natura, storia e cultura in cui è immerso -, con la sua volontà attiva, con le sue strategie cognitive messe in atto per raggiungere certi risultati.

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Mentre nella prima ipotesi acquista peso determinante il ruolo delle azioni esterne capaci di stimolare opportunamente il cambiamento voluto (di qui la centralità dell’insegnamento per obiettivi e contenuti), nell’altro è in primo piano il processo interno di apprendimento, e l’insegnamento viene pensato come l’insieme delle azioni volte ad organizzare e modulare i processi di apprendimento, con una molteplicità di approcci e di metodi che rispettino e valorizzino le diversità.

 

Per quanto riguarda gli esiti dell’insegnamento, nel primo caso essi paiono descrivibili e misurabili in quanto osservabili in precisi comportamenti: di qui lo sforzo, talvolta eccessivamente analitico, fino a divenire talora vago e incomprensibile ai più, di descrivere e misurare conoscenze, abilità e competenze. Nel secondo caso, l’attenzione agli esiti non è disgiunta dalla consapevolezza che non tutta la ricchezza formativa dell’esperienza scolastica è racchiudibile in un elenco di indicatori. Ci sono infatti, al vertice del processo conoscitivo, una ricerca e una costruzione di significati che il soggetto dà a ciò che apprende – e che sono per lui indispensabili nel costruire la propria identità cognitiva – pur non essendo pienamente descrivibili né quantificabili. 

Di qui due modelli diversi per guidare le scelte culturali e didattiche, modelli che spesso, nella prassi scolastica, si intrecciano con un’ampia serie di sfumature a seconda delle personali sensibilità dei docenti.

 

La centralità assegnata al modello di costruzione della conoscenza, inoltre, dà anche diverso spessore alle discipline, anch’esse viste non solo come risultati (i contenuti elencati nei programmi), ma come processi di conoscenza. I saperi disciplinari sono gli esiti dei processi di conoscenza collettivi, che la società ha prodotto e continua a produrre nel tempo, e che via via organizza in base a metodi condivisi, con precisi protocolli di validazione. Come tali essi godono di coerenza interna e di rigore e risultano socialmente riconosciuti, almeno fin tanto che non vengono sottoposti a revisione.

 

Gli apprendimenti, invece, sono processi individuali, in gran parte spontanei, spesso lontani dal rigore tipico delle discipline: è proprio in questo dialogo fra le menti degli allievi e le tante menti racchiuse nelle discipline che si gioca l’apprendimento scolastico. Dialogo, la cui difficoltà è ben nota agli insegnanti di materie scientifiche, nelle quali è più ampia la distanza fra la conoscenza spontanea che si esprime nel senso comune, e la conoscenza scientifica. Essi rilevano molto spesso nell’apprendimento degli allievi lo slittamento dal piano dei concetti e delle nozioni formali e disciplinari a quello delle idee e delle conoscenze informali e di senso comune, e viceversa.

 

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Tutto questo implica, per quanto riguarda la modulazione degli apprendimenti, la messa in campo dei problemi legati alla molteplicità e variabilità delle dinamiche cognitive individuali, al ruolo delle pre-concezioni e degli aspetti meta-cognitivi, all’importanza della costruzione e della ristrutturazione dei concetti, al riconoscimento e alla valorizzazione delle intelligenze multiple e dei diversi stili cognitivi. Se poi si pensa al vissuto degli allievi rispetto alle difficoltà che incontrano nell’apprendimento e al rischio, molto comune, che perdano la motivazione e la stima di sé, risulta evidente l’importanza che assume anche lo “stile” di relazioni che si impostano nella classe e il modo di gestire la valutazione.

 

Di più, la rilettura delle discipline in un’ottica di “processo” implica che se ne riconoscano tutte le dimensioni implicite in un sapere che parte da problemi, mette in campo strumenti, linguaggi e procedure specifiche per risolverli, organizza le risposte per costruire modelli di mondo, è alimentato continuamente dal contesto culturale, storico e sociale in cui opera, contribuendo a sua volta a definirlo in chiave dinamica. Perché gli allievi possano percepire questa immagine della disciplina e ne ricavino il significato, occorre che vengano guidati a praticarne le operazioni significative, ad evidenziarne i problemi, ad illuminare i momenti principali della sua evoluzione storica, a ritagliarne il ruolo nel sociale. È così che i “contenuti” diventano molto di più di ciò che normalmente si intende con questo termine, e cioè i risultati della conoscenza che la cultura ha prodotto nel tempo, elencati sotto forma di temi nei programmi ministeriali.

 

Ma una disciplina “in atto” non si può trasmettere con un insegnamento che si risolva nella sequenza: lezione, esercitazione e verifica. La sfida dell’insegnamento è anche qui: nella scelta e nell’organizzazione di percorsi significativi che non mortifichino, ma valorizzino, sia gli apprendimenti che le discipline.

Una relazione virtuosa e fruttuosa fra conoscenze e competenze, come si intravvede da questo quadro necessariamente sintetico, non si può giocare sulla scelta fra le une e le altre, né, purtroppo, si raggiunge con il ricorso al buon senso o alla semplificazione. Si gioca invece sulla ridefinizione del profilo professionale del docente, anch’esso – ma questo è il problema più difficile di tutta la questione – arricchito di nuove conoscenze e di nuove competenze.

 

 

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