Le elezioni regionali di quest’anno hanno visto un calo netto dell’affluenza alle urne: si parla del 64,19 % degli italiani, contro il 72 % che ha espresso la propria preferenza politica nelle regionali del 2005. I grandi assenti ai seggi sono stati i cittadini più giovani, maggiormente colpiti dall’ondata di sfiducia che sta investendo il bel Paese. Sfiducia, a essere onesti, non tanto o non soltanto nello stato attuale in cui versano le nostre istituzioni, quanto nelle ragioni stesse del fare politica: questa è la percezione di chi scrive, nella sua esperienza universitaria di studente fra studenti.



Ma a che dobbiamo una simile disillusione nei confronti della vocazione politica? Quali aspirazioni umane e storiche degli italiani, giovani e non, sono state tradite – o tali sono state sentite? Per una riflessione su queste domande può essere utile esaminare quale posto l’educazione e la partecipazione politica hanno occupato nel corso della storia della nostra repubblica. Un fatto evidenziabile in gran parte della Costituzione Italiana è il ricordo ancora vivo del fascismo, che proietta la sua ombra sul testo dei padri costituenti: un esempio è fornito dall’art. 21 sulla libertà di manifestazione del pensiero, che si preoccupa prevalentemente di impedire manipolazioni e censure a mezzo stampa, pratiche tristemente diffuse nel regime. Perciò è senza dubbio interessante confrontare l’approccio di Mussolini alla preparazione politica giovanile con quello dei padri costituenti.



Nella sua dichiarazione al parlamento del 3 gennaio 1925, con la quale si indica la fine della fase legalitaria del fascismo, il Duce definiva il fascismo come «una passione superba della migliore gioventù italiana». Di certo Mussolini ha dedicato particolare attenzione affinché la formazione dei giovani fosse conforme agli ideali fascisti, al punto che l’anno successivo alla svolta regimentale venne istituita l’Opera Nazionale Balilla, che penetrò capillarmente nel sistema scolastico del tempo. Lo scopo di tale organismo era la preparazione fisica e morale dei futuri fascisti: essi dovevano sentirsi parte di una società forte e dinamica, assimilando in modo acritico i modelli promossi dal regime tramite l’attivismo di massa: si trattava in sostanza di una partecipazione emotiva, piuttosto che critica.



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Riappropriatesi della loro libertà istituzionale, le forze politiche e sociali dell’Italia post-fascista offrivano un panorama tutt’altro che omogeneo: oltre alla comune avversione al fascismo, un altro punto di contatto era la volontà di creare un nuovo ordine fondato sulla libera e piena partecipazione dei cittadini. Il Partito comunista, in particolar modo, voleva cogliere l’occasione di fare delle nuove generazioni i protagonisti della rivoluzione proletaria: “illuminati” dalla rivelazione comunista, avrebbero effettuato un’analisi cristallina del mondo capitalista come gestazione della società comunista.

 

L’intervento di Palmiro Togliatti alla conferenza nazionale giovanile del PCI nel maggio del 1947 non lascia spazio a dubbi sul traguardo della formazione giovanile: «I giovani che vengono al nostro partito devono essere stabilmente conquistati ai grandi ideali del socialismo e del comunismo […]. Essi devono acquistare la certezza – volevo dire la fede – che l’avvenire e la salvezza della società umana sta nella sua trasformazione socialista e comunista, e questa certezza deve sorreggerli, guidarli, illuminarli in tutto il lavoro pratico quotidiano».

Ben altri toni sono quelli di Aldo Moro, anch’egli parte dell’Assemblea Costituente, nel suo discorso in occasione del XI Congresso Nazionale della DC il 29 giugno 1969: «I giovani chiedono un vero ordine nuovo, una vita sociale che non soffochi ma offra liberi spazi […]. L’immissione della linfa vitale dell’entusiasmo, dell’impegno, del rifiuto dell’esistente, propri dei giovani, nella società, nei partiti, nello Stato, è una necessità vitale, condizione dell’equilibrio e della pace sociale». Toni diversi, ma anche tempi diversi: le parole del politico democristiano giungono a meno di un anno di distanza dalle contestazioni studentesche del ’68. Il movimento di protesta, infatti, si declina come rifiuto in blocco della società e delle istituzioni di quegli anni e aspira a una sorta di democrazia egualitaria e spontanea, trasformandosi in seguito in una vera e propria rivoluzione comportamentale.

 


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Il ’68 costituisce un importante precedente storico alla delusione politica che la nostra nazione sta attraversando in questi anni. Essenzialmente, gli esempi storici presi fin’ora in esame presentano tutti una comune matrice ideologica, per quanto propongano soluzioni profondamente diverse fra loro. Il fascismo e il comunismo rivoluzionari, la Democrazia Cristiana nel secondo dopoguerra, le proteste sessantottine, nutrono tutti la medesima aspirazione: cancellare con un colpo di spugna il male di cui è intriso il mondo e rimboccarsi le maniche per creare un piccolo paradiso terrestre. E’ questa l’eredità lasciataci dal secolo delle ideologie, la politica come igiene del mondo: un sogno che è stato e continua tuttora a essere smentito dalla storia. Non bisogna sorprendersi, quindi, se il frutto che stiamo raccogliendo è quello amaro della delusione.

 

 

 

Quello a cui stiamo assistendo non è altro che lo spasimo dell’ideologia del potere: per lasciarci definitivamente alle spalle dobbiamo recuperare la natura dell’agire politico, il che non è possibile senza riappropriarsi della natura dell’uomo. Una riflessione in tale direzione è suggerita dalle parole di Giovanni Paolo II, che nell’enciclica “Centesimus annus” del 1991 scrive: «la convivenza fra gli uomini non è finalizzata né al mercato né allo Stato […]. L’uomo è, prima di tutto, un essere che cerca la verità e si sforza di viverla e di approfondirla in un dialogo che coinvolge le generazioni passate e future […].

In effetti, il patrimonio dei valori tramandati e acquisiti è sempre sottoposto dai giovani a contestazione. Contestare, peraltro, non vuol dire necessariamente distruggere o rifiutare in modo aprioristico, ma vuol significare soprattutto mettere alla prova nella propria vita e, con tale verifica esistenziale, rendere quei valori più vivi, attuali e personali». Non ostracizzare la nostra eredità né le difficoltà in cui versiamo, quindi, ma fare di queste il primo passo verso una maggiore conquista di sé: a queste condizioni, forse sarà ancora possibile “sporcarsi le mani” con quella brutta cosa chiamata politica.

 

(Lorenzo Accorsi)

 

 

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