La Musica, diceva Aristotele, non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poiché può servire per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per ricreazione, il sollievo e il riposo dallo sforzo.

Il candidato si soffermi sulla funzione, sugli scopi e sugli usi della musica nella società contemporanea. Se lo ritiene opportuno, può fare riferimento anche a sue esperienze di pratica e/o ascolto musicale. (Fonte: indiscrezioni web)
È facile immaginare l’incanto dell’uomo primitivo che ascolta la melodia di un usignolo, il mormorio composto di un bosco o la cantilena infinita del mare. Era la scoperta che non esisteva solo il rumore, la confusione stridente di suoni inarticolati, il minaccioso boato del tuono. E come è stata grande la sorpresa nello scoprire che anche la propria voce poteva articolarsi in un’armonia!



Un canto vigoroso per accompagnare il duro lavoro, una nenia per addormentare i figli o riempire le lunghe serate d’inverno raccontando le vecchie storie degli antenati, una danza per allietare la festa dell’unione con la donna, una marcia ritmata per infondere coraggio prima della battaglia, un lamento per la sepoltura. Come se ogni istante della vita potesse avere come misteriosa compagna un’armonia nascosta che, come diceva Eraclito, «è più potente di quella manifesta». Un’armonia in cui l’uomo può inoltrasi stupefatto anche costruendo strumenti che riproducono il grande equilibrio della matematica universale.



La musica ha accompagnato la straordinaria avventura attraverso la quale l’uomo ha scoperto che dietro la confusione c’è un ordine, oltre lo schiamazzo un canto. E che il silenzio non è un vuoto spaventoso, ma la più sublime delle melodie.
 

Sono proprio questi i «benefici» cui accenna Aristotele. Egli parla anzitutto della funzione educativa della musica. Educazione a che cosa? Non certo alla tecnica musicale; sarebbe una sterile autoreferenzialità. La musica educa esattamente perché introduce in una prospettiva di armonia, che è desiderio e meta mai pienamente raggiunta.



Armonia che fa da modello per tutti gli aspetti della nostra esistenza, che trascorre come un susseguirsi di rumori eppure aspira alla pace della melodia. In tal senso la musica è «catarsi», cioè rappresenta quella purificazione che scioglie i nodi del dramma; non perché li cancella, ma perché li inserisce armonicamente nella grande sinfonia dell’essere e, perciò, dona anche «sollievo e riposo».

Cosa resta di tutto ciò «nella società contemporanea»? Tutto e niente.
Tutto perché la dinamica descritta è inestirpabile dalla coscienza umana. Basta pensare all’esperienza di sorpresa che si fa quando, passeggiando per una strada caotica e rumorosa per il traffico, si sente da una finestra un pianista che prova uno struggente Notturno di Chopin.

O quando, facendo zapping tra i canali dell’autoradio mentre di è in coda, ci si imbatte in una voce così intensa e vibrante che per un attimo ti metti a canticchiare con lei o a battere il ritmo con le mani sul cruscotto, dimenticando l’ansia della fila.
 

Non rimane niente, invece, quando anche la musica è travolta nel gorgo del rumore. E lo è per le elucubrazioni intellettualistiche di tanta produzione contemporanea che sembra desiderosa soltanto di infliggere alle nostre orecchie la penitenza di un rumore suppletivo a quello cui dobbiamo già normalmente soggiacere.

Lo è per la macchina tritatutto del mercato discografico che impone modelli effimeri che si divorano l’uno dopo l’altro, senza lasciare neanche il tempo di assorbirli. Lo è perché la solitudine eretta a dimensione stabile impedisce di costituirsi in coro e di cantare insieme come le mondine o i soldati; ora non si canta più quando si lavora o si fa una festa: ognuno, semmai, ha il suo auricolare e si sente libero perché ascolta quello che vuole e non si accorgere di perdere così ogni dimensione di sinfonia, di suono insieme.

Ma soprattutto la musica è ferita dall’assenza di silenzio. Il silenzio che è stato cacciato da tutti i momenti della nostra giornata e anche dalle notti; il silenzio che crea l’aspettativa di qualcosa che lo riempia, come il sole mattutino trasfigura il buio notturno; il silenzio che fa concentrare su se stessi e spazza via la distrazione; questo silenzio è l’amato sposo della musica. Senza di lui, essa rimane una vedova povera e lacera; inutile. In fondo identica al rumore.

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