Cosa succede a un ragazzo di dodici anni quando qualcosa di imprevisto irrompe in famiglia e scardina le certezze di sempre? E se la mamma torna a casa accompagnata dalla polizia in evidente stato di choc a causa di un grave incidente? È la questione che affronta La Sfida, in libreria per Rizzoli, ultima opera di John Boyne, diventato famoso col precedente Il bambino con il pigiama a righe che ha anche visto una riduzione in film nel 2008.
La storia ci narra del dramma di Danny, alla vigilia delle vacanze estive, proprio in quel particolare momento dell’anno in cui si dovrebbe pensare solo alle corse in bici e ai tuffi nell’acqua e invece in casa tutto cambia di colpo. La mamma ha investito un bambino che è grave in ospedale e all’improvviso i grandi cambiano faccia, diventano irriconoscibili, mostrano aspetti che fino ad allora non avevano ancora svelato. Su una scena angosciata e senza speranza si alternano due famiglie in crisi, quattro genitori smarriti dentro la loro interpretazione della realtà che tra sensi di colpa e desiderio di vendetta impedisce loro di guardare alla risorsa di cui dispongono, i figli che hanno accanto.
Un romanzo breve quello di Boyne che ancora una volta presta la voce a un bambino, ormai ragazzo, che narra in prima persona la sua singolare vicenda. La storia avvince e pone acuta la questione dei rapporti fra i più piccoli e i loro maggiori, non solo genitori. Figura di riferimento dentro il groviglio preoccupato della famiglia è per Danny il fratello grande Pete, di cui sappiamo quel poco che basta per saperne appena accennare un profilo, tranne il fatto che quando servirà saprà fare la sua comparsa al momento giusto. E accanto a Pete troviamo anche Sarah, una enigmatica bambina dai capelli rossi che custodisce in sé il segreto che potrebbe sciogliere qualche angoscia ai più grandi.
Di Danny ci colpisce la sua capacità di osservare, giudicare, creare a volte falsi nessi, trarre conclusioni improprie, perseguire soluzioni svantaggiose, difendere ostinatamente dei genitori che non capisce. In ultima analisi ne riscontriamo la facoltà di pensiero. I bambini ci guardano e ci ascoltano, a volte anche ci spiano, ma senza malizia, solo per il desiderio di capire di più quello che teniamo nascosto loro ma che ritengono interessante.
Clicca >> qui sotto per continuare l’articolo
Non solo ci osservano, cercano anche di farsi un’idea più precisa, di formulare un giudizio che restituisca un senso a ciò che accade. Altro che frugoletti, da buffetti sulle guance e paroline mielose! Hanno invece bisogno di comprendere la realtà, mossi da una particolare posizione originaria: si attendono sempre il bene dall’altro. È proprio questa ingenuità che a volte però li mette in scacco, il non saper contemplare che l’altro possa ingannare o tradire la fiducia che viene riposta in lui. Per dolo o per semplice colpa che accada, il bambino è vulnerabile alla menzogna che gli viene detta dall’adulto, ma soprattutto è vulnerabile rispetto a chi disconosce questa sua esigenza di fare presa sulla realtà e misconosce quanto elaborati e fini possano essere i suoi pensieri.
Di Danny apprezziamo l’imbarazzo verso una mamma in difficoltà che fatica a riconoscere, lo sconcerto verso una situazione che improvvisamente quasi si dimentica di lui, la ribellione verso gesti nervosi che lo feriscono senza motivo, l’apertura a cercare la verità, la disponibilità a nuove alleanze percepite come vantaggiose.
Nonostante il finale, un po’ affrettato e per certi versi questionabile, questo romanzo pone una sfida agli adulti: guardare i ragazzi con maggiore rispetto, consapevoli che proprio nelle situazioni più critiche hanno bisogno di essere riconosciuti nella loro facoltà di pensiero. Per aiutarli a comprendere ciò che accade ed evitare che traggano conclusioni sbagliate occorre però innanzitutto tenerli in considerazione, stimarli e ascoltarli. Ma bisogna prima offrire loro l’occasione di trasformare il pensiero in parola, offrendo occasioni perché possano davvero parlare con noi.
Soprattutto occorre essere coscienti che la partita si gioca non nei discorsi che noi adulti possiamo fare presi da un afflato pedagogico, piuttosto nella modalità con cui noi stessi affrontiamo il reale. A essere convincente sarà non tanto la nostra coerenza, quanto la serietà con cui proviamo a vivere, l’intensità della nostra esperienza, la sincerità del nostro aperto tentativo di affronto, la certezza morale con cui guardiamo in faccia le situazioni che arrivano anche impreviste. Perché i bambini ci guardano e sono assai bravi a cogliere i segni.