Nel suo articolo sulla formazione degli insegnanti, Giovanni Cominelli sostiene la necessità di una fase più lunga di “praticantato” (e dunque di un ruolo maggiore delle scuole) rispetto a quanto previsto dal regolamento redatto dalla commissione Israel, oltre a giudicare eccessiva la durata dell’iter formativo.



In concreto, la parte essenziale della sua proposta consiste nel portare da uno a due anni il tirocinio, che si svolgerebbe contemporaneamente agli ultimi due anni di università.

Viene subito spontaneo osservare che un anno dedicato completamente al “praticantato” e due di tirocinio “part time” sembrano, a occhio e croce, equivalenti. Ma viene soprattutto da chiedersi quante scuole siano adeguatamente preparate a un ruolo di responsabilità così esteso e dispongano delle competenze necessarie. Dubito che siano molte.



Non si può certo continuare con il volontariato gratuito che caratterizzava l’esperienza delle SSIS, con gli specializzandi costretti a questuare un tirocinio da questo o quel docente, che a sua volta doveva improvvisarsi “tutor” senza avere la minima formazione in proposito. Ci vogliono docenti selezionati e retribuiti a questo scopo (e perciò pienamente responsabilizzati), che certamente non si inventano dall’oggi al domani.

Manca poi quasi sempre nella scuola italiana (in particolare nel livello secondario), e va invece urgentemente creata, un’altra condizione essenziale per rendere qualitativamente adeguata l’esperienza del tirocinio, oltre che per fornire la base indispensabile di una continua crescita di tutti i docenti: l’idea e la pratica della scuola come comunità professionale, in cui sia normale e frequente il confronto attraverso il metodo seminariale delle esperienze didattiche, delle soluzioni date a problemi specifici, sia di carattere metodologico che relazionale.



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Si tratta oltretutto – osservo en passant – di un modo di dare corpo a quella libertà metodologica, che si deve recisamente contrapporre alle ricorrenti tentazioni di imporre un’ortodossia didattica agli insegnanti italiani.

 

Vorrei inoltre osservare che la divisione dei ruoli tra università e scuola – alla prima la formazione teorica, alla seconda l’acquisizione della competenza operativa – non dovrebbe essere così netta come appare, se non ho capito male, dall’intervento di Cominelli.

 

Parallelamente all’acquisizione di solide conoscenze disciplinari e delle basi teoriche essenziali della psicologia e della pedagogia, i futuri docenti dovrebbero formarsi anche attraverso esperienze laboratoriali, in cui non solo si discutano esempi di itinerari didattici, ma – a somiglianza di quanto fanno molte scuole di psicologia – si facciano simulazioni di attività di insegnamento o si analizzino videoregistrazioni di lezioni svolte.

 

Ogni anno vanno in pensione insegnanti di straordinario valore, la cui competenza potrebbe invece essere messa al servizio dei futuri docenti in questo tipo di attività, attraverso incarichi universitari, anche temporanei. Ciò costituirebbe tra l’altro uno dei tasselli più significativi di quella “carriera” di cui si parla da molto tempo.

 

Tutto questo considerato, ritengo che sia decisiva, piuttosto che una ristrutturazione del percorso formativo come quella indicata da Cominelli, un’attuazione di alto profilo della “bozza Israel”, tenendo adeguato conto sia delle competenze realmente presenti nel mondo della scuola, sia della necessità di integrare la formazione teorica universitaria con frequenti momenti di didattica operativa ed esperienziale.

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