La carovana della maturità 2010 si sta mettendo in movimento. Racconti, film, cronache, interviste parleranno anche quest’anno del necessario e romantico “rito di passaggio”, di cui le generazioni più anziane nutrono una nostalgia proporzionale alla distanza nel tempo. Oggi si chiama in realtà “esame di stato”. Sull’utilità sociale e culturale di tale rito, sulla sua capacità di dire la verità pubblica sul patrimonio di conoscenze e competenze accumulate dai candidati, chi scrive nutre dubbi crescenti, anch’essi proporzionali agli anni che passano. La storia lunga e accidentata dell’esame sembra confermarli.
Il primo esame di licenza liceale ha luogo alla fine dell’anno scolastico 1860/61, in base alla Legge Casati. Avviene al termine di ogni anno del percorso scolastico, davanti a una Commissione nominata dal ministro, ma non perciò necessariamente esterna. Chi ha una media del 7/10 in tutte le materie ne è esentato. Il ministro Boselli innalza la media a 8/10. Un Regio Decreto del 1892 prevede che si possa ottenere la licenza, anche se bocciati in una materia, purché non sia Italiano o Latino. Tra gli inizi del ‘900 e il 1922, viene avanti con forza la richiesta dell’esame di Stato, cioè della trasformazione dell’esame conclusivo finale o di licenza in un “esame di Stato”. Fino ad allora esso era obbligatorio solo per le scuole non-statali. In questa spinta confluirono opposti interessi.
I cattolici chiedevano che non solo le scuole non-statali, ma anche quelle statali fossero sottoposte al vaglio rigoroso dell’esame finale, sentendosi discriminati da un esame di Stato, che era per di più condotto da docenti statali. I liberali, che fin dai tempi di Casati avevano progettato una scuola per le élites, erano preoccupati per l’abbassamento della qualità della scuola pubblica, nella quale, con lo sviluppo economico-sociale del primo Novecento, entravano ormai, soprattutto nel Mezzogiorno, quote crescenti di popolazione giovanile provenienti dalla nuova borghesia che si andava formando. Perciò alcuni esponenti della cultura e della pedagogia di inizio secolo, da Benedetto Croce – che sarà ministro della Pubblica Istruzione dal 16 giugno 1920 al 4 luglio 1921 – a Gaetano Salvemini, a Giuseppe Lombardo Radice a Giovanni Gentile incominciarono a chiedere l’esame di Stato anche per le scuole statali.
Esso era chiamato a svolgere una rigorosa funzione selettiva delle élites, accompagnata da una politica di dirottamento della massa degli aspiranti ai gradi superiori dell’istruzione verso il Liceo Moderno (niente Greco, poco Latino) – che poi si chiamerà Scientifico con Gentile – o verso l’Istruzione tecnica. Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione dal 31 ottobre 1922 al 30 giugno 1924, porta al ministero questa posizione, fondata filosoficamente e pedagogicamente – si sa che per lui filosofia e pedagogia coincidono – sul liberalismo di matrice hegeliana: «Lo Stato è una universale potenza etica». Nonostante le apparenze, Gentile non è ideologicamente fascista. La fascistizzazione integrale della scuola sarà condotta avanti da altri ministri più fedeli al regime e quella politica del filosofo avverrà nel corso degli anni.
Con il Regio Decreto del 4 maggio 1923, n. 653 viene istituito l’esame di Stato di maturità. Gli esami del Liceo classico hanno luogo in tutta Italia in 40 sedi, quelli del neonato Liceo scientifico in 20 sedi. I commissari sono tutti esterni. Il primo esame di maturità dell’anno scolastico 1923/24 realizzò esattamente quello che Gentile si attendeva: una falcidia di massa dei candidati, circa il 74%. Nella sola città di Torino il 68%, con conseguente appello delle famiglie al Re perché concedesse una sanatoria. Richiesta respinta. Con il tempo questa durezza selettiva si attenuerà. Per di più, nel decennio 1936-45 saranno introdotte molte deroghe per i volontari, i reduci, i coloni africani, gli sfollati delle città bombardate. Ma le “irregolarità” dureranno fino al 1949, quando si tornerà alle Commissioni d’esame prevalentemente esterne.
Nella discussione alla Costituente solo Luigi Einaudi si schiererà contro l’esame di Stato, proponendo l’abolizione del valore legale del titolo di studio. La storia più recente è forse più nota. Ferrari Aggradi trasforma in Legge del 5 aprile 1969 il precedente Decreto legislativo di Fiorentino Sullo che modifica in profondità l’esame di maturità: solo una sessione estiva, 2 sole prove scritte (non più 3), solo i programmi dell’ultimo anno e solo i concetti essenziali di 2 su 4 materie scelte dal Ministero. Si trattava di modifiche dichiarate “provvisorie”, che dureranno fino al 1997.
Intanto nella Conferenza di Frascati, ministro Riccardo Misasi, in un incontro con l’OCSE vennero definiti 10 punti di una riforma dell’intero sistema di istruzione secondaria. Il 6° punto suggeriva l’eliminazione dell’esame di Stato. Da Berlinguer (che aggiunge una terza prova scritta, articola la prima in quattro modalità a scelta, abolisce il giudizio di ammissione all’esame, sostituito dall’ammissione con voto a maggioranza del Consiglio di classe) a Letizia Moratti (che prevede solo il presidente della Commissione come esterno; prima erano 50% interni, 50% esterni), a Beppe Fioroni (che ripristina il fifty-fifty per i Commissari) a Maria Stella Gelmini (che con Circolare del 4 giugno 2008 ripristina la sufficienza in tutte le materie quale condizione di ammissibilità a partire dall’anno 2010) le modifiche e le contro-modifiche si sono succedute nel giro di undici anni.
Il fine dichiarato è sempre lo stesso: rendere il meccanismo dell’esame più capace tecnicamente di rilevare lo stato di preparazione dei candidati e, contemporaneamente, bloccare le ondate di lassismo, che si sono manifestate periodicamente, di fronte alla constatata inattendibilità delle verifiche. Nel corso dei lunghi decenni, dal 1923, un movimento di sistole severista e di diastole facilista ha fatto pulsare incessantemente il cuore dell’esame di Stato. Al momento il movimento è sistolico: sufficienza richiesta in tutte le materie. Prevedibile una diffusa adozione del “6 politico” per voto di Consiglio. Intanto la fenomenologia reale dello svolgimento degli esami è impietosa: anarchia valutativa, scarsa deontologia professionale – insegnanti che “aiutano” i ragazzi per difendere il “buon nome” della scuola e il proprio – una vasta diffusione della truffa, fortemente sostenuta dai nuovi mezzi di comunicazione (con creazione di un sito su Facebook allo scopo).
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Un’indagine del 2007 commissionata dall’Invalsi all’Accademia della Crusca ha verificato che le scuole baravano nell’invio allo stesso Invalsi – a fini di ricerca – dei temi di Italiano che dovevano essere abbinati a determinati numeri a caso. Le scuole abbinavano, invece, al numero X richiesto dall’Invalsi i temi ritenuti migliori. Per evitare queste manipolazioni, d’ora in avanti dovranno inviare i temi corrispondenti ai cognomi, non più a numeri.
La stessa indagine ha verificato che vi sono notevolissime differenze tra i giudizi degli insegnanti che hanno corretto i compiti di italiano e quello del team di valutatori, composto anch’esso da insegnanti, cui è stata affidata la revisione degli elaborati. I giudizi degli insegnanti della scuola sono risultati clamorosamente più generosi di quelli dati dai valutatori. Insomma: l’esame non accerta il livello reale di conoscenze/competenze, la “maturità” dei ragazzi.
E la ragione fondamentale è che la statalizzazione del risultato della verifica finale distorce i contenuti, i metodi e le procedure della verifica stessa. Restituire verità e dunque utilità personale e pubblica ai ragazzi e al Paese richiede una definizione degli standard da raggiungere – oggi vi suppliscono in modo anarchico e confuso i resti dei Programmi ministeriali – e, soprattutto, una certificazione/descrizione via-portfolio dei contenuti realmente conquistati all’uscita della scuola secondaria di secondo grado. L’esame di stato non è necessario, è dannoso, perché spaccia moneta falsa per buona.