«Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.



Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto». C. Péguy, L’argent, 1914.



È l’idea di un vero “fare”, dell’esperienza della soddisfazione per un compito portato a termine.

Si sono svolti, nella penultima settimana di maggio ad In-presa, gli esami per la certificazione delle competenze finali dei manutentori in ambito elettrico del progetto “A scuola e in bottega”, percorsi in alternanza scuola e lavoro per ragazzi che hanno avuto un itinerario scolastico alquanto travagliato: bocciature, allontanamenti dalle scuole, ritiri.

La prova professionalizzante – secondo la logica della costruzione del “capolavoro” – ha visto la realizzazione di un mini impianto eolico di produzione di energia elettrica commissionata da una ditta multinazionale leader nel settore. Un mini impianto che riesce a produrre 800 watt.



Ore di laboratorio, di lavoro paziente e duro: la progettazione, i disegni, la costruzione dei componenti e… il prof che ti fa vedere dei quadri: l’incontro con una bellezza che illumina l’esperienza della fatica di tutti i giorni:

«Il contadino che semina (si riferisce al celebre quadro di Van Gogh) è come noi che costruiamo le nostre bobine: se la semina è avvenuta correttamente, il contadino dai semi ricaverà i frutti, le bobine costruite da noi, se fatte correttamente, produrranno energia» (Alessandro).

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA >> QUI SOTTO

«Gli uomini che afferrano i torelli (è il quadro Marcatura dei torelli di Giovanni Fattori) pur facendo un lavoro estremamente faticoso, non mostrano fatica e sofferenza, ma mostrano serietà perché per loro quel lavoro è tutto, un errore comprometterebbe tutta la giornata. Ma nonostante ciò lo eseguono con serietà e soprattutto tranquillità» (Giovanni).

 

Fino a Denny che arriva a sorprendersi come il quadro di Vermeer Il Geografo possa essere un suggerimento interessante per sé: «Alla mia esperienza suggerisce che bisogna sempre pensare bene al lavoro che devo fare. Io che “sono un elettricista” devo sempre pensare bene quando devo fare un impianto». Devo sempre pensare bene.

 

L’esperienza è una: fare, conoscere, scoprire il nesso tra sé e il reale, imparare da un maestro. È un’avventura in cui si scopre l’unità dell’io, così come l’unità della proposta nella scuola: l’italiano, l’arte, il laboratorio; tutto è perché il lavoro possa essere “ben fatto”.

 

Torna alla mente, ancora colmi di commozione, il testamento di Pavel Florenskij citato da Benedetto XVI al Regina Coeli del 16 maggio: «Figlioli miei carissimi… abituatevi, imparate a fare tutto quel che fate con passione, ad avere il gusto del bello, dell’ordine; non disperdetevi, non fate niente senza gusto, a qualche maniera. Ricordatevi che nel “pressapochismo” si può perdere tutta la vita, e al contrario, nel compiere in maniera ordinata, armoniosa, anche cose e opere di secondaria importanza si possono fare tante scoperte, che poi vi serviranno come sorgenti profondissime di nuova creatività… E non solo. Chi fa “a qualche maniera”, impara a parlare nello stesso modo, e la parola trascurata implica poi di conseguenza anche un pensiero confuso. Figlioli miei carissimi, non permettete a voi stessi di pensare in maniera trascurata. Il pensiero è un dono di Dio, richiede che ce ne prendiamo cura. Essere chiari e responsabili nel proprio pensiero è il pegno della libertà spirituale e della gioia del pensiero». È così che i ragazzi dell’esame possono dire: “Qui c’è qualcuno che mi prende sul serio!”.