In questi giorni si sta discutendo, in Senato, il ddl di riforma del sistema universitario proposto dal ministro Gelmini. Il testo, se approvato, apporterebbe alcune modifiche rilevanti, tra le quali la possibilità per il Rettore di nominare il consiglio di amministrazione (sostituendo l’attuale meccanismo elettivo), la definizione di un legame più forte tra risultati e finanziamento pubblico, la creazione di un sistema di reclutamento dei docenti più trasparente e meritocratico – almeno dal punto di vista formale.
Senza entrare nel merito dei singoli aspetti, ci sembra che la politica generale del provvedimento sia coerente con la necessità di rivedere alcuni meccanismi di finanziamento e regolazione del sistema che, in passato, non hanno funzionato. Appare necessario, tuttavia, avviare una riflessione in parallelo, per potenziare ulteriormente il processo di modernizzazione e di rilancio del sistema universitario. In questo contesto, è importante chiarire che il cuore del problema – e la sua soluzione – non è rappresentato tanto dalle regole di funzionamento “interno” degli atenei (organi accademici, sistemi decisionali, ecc.), quanto dalle regole di governance “di sistema”, ossia dal rapporto tra il sistema pubblico e le università.
In questa prospettiva, la riflessione deve considerare due fattori importanti. Il primo è che non tutte le università italiane hanno abusato dell’autonomia. Analizzando i dati sulla situazione finanziaria, sulle prestazioni didattiche (laureati, occupati a tre anni dalla laurea) e di ricerca (pubblicazioni, citazioni, capacità di attrarre fondi esterni) si nota che ci sono atenei che negli ultimi anni hanno ottenuto risultati brillanti.
Il secondo fattore da considerare è la crescente “internazionalizzazione” della formazione terziaria. Chi vive nelle università sa bene che, negli ultimi dieci anni, gli studenti migliori d’Europa e del mondo si muovono, e vanno alla ricerca dell’offerta migliore, ovunque essa si trovi. Anche dal punto di vista della ricerca, la reputazione degli atenei si misura su scala europea e mondiale, e non più all’interno dei singoli Paesi (basti ricordare le famose classifiche del Times che, ogniqualvolta pubblicate, fanno i primi titoli dei giornali).
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I due fattori, letti e interpretati congiuntamente, richiamano una possibile metafora: i provvedimenti legislativi in discussione sembrano voler riformare il “campionato italiano”, ma occorre anche tenere conto della “Champions League”. I problemi strutturali del nostro sistema universitario (in particolare, il sottofinanziamento e l’eccessiva regolamentazione) impediscono di aspirare ad essere un campionato tra i migliori al mondo, e il ddl Gelmini intende cercare quantomeno di migliorare la qualità “media”; però, allo stesso tempo, abbiamo forse alcune squadre (atenei e dipartimenti) capaci di difendersi a testa alta in Europa.
Se così fosse, insieme a un giusto tentativo di correggere i difetti principali del nostro sistema universitario, dobbiamo forse chiederci se non sia il caso di favorire la crescita e lo sviluppo delle nostre squadre migliori, perché si lancino a piè sospinto nella competizione europea – magari, sacrificando anche qualche partita di campionato. Il sistema universitario italiano potrà trarre benefici sia da un cambiamento marginale di tutti gli atenei, sia da innovazioni e miglioramenti radicali per i nostri atenei migliori; ma mentre il ddl si occupa del primo, al contempo occorre approntare interventi che riguardino anche il secondo.
La metafora ha molte analogie con la realtà, e suggerisce potenziali soluzioni a problemi molto sentiti dall’accademia nel nostro Paese.
Primo, chi decide quali atenei e dipartimenti devono essere selezionati per rappresentare il meglio del nostro sistema? Come nel campionato, di questo s’incarica la classifica. Certo, questa deve essere redatta secondo criteri condivisi, chiari, e possibilmente trasparenti. Va precisato, a questo proposito, che le informazioni rese annualmente disponibili dal Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU), dalle classifiche del Sole24Ore e di Repubblica, dalla stessa classifica internazionale del Times, sono concordi nell’individuare le università e i dipartimenti che si collocano ai primi posti. Il Ministero dovrebbe certificare le metodologie e i dati, e poi prenderne atto…
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Una volta individuate le università migliori, e le strutture di ricerca migliori, occorre riservare loro un trattamento di favore (finalizzato, s’intende, alla competizione internazionale). Così come a una squadra è concesso di giocare il venerdì per essere più fresco nella sfida europea, così all’ateneo “x” dovrebbe essere concesso, ad esempio, di derogare ai limiti stipendiali per la retribuzione di docenti stranieri, o di evitare di essere sottoposti ai numerosi controlli formali e burocratici della Corte dei Conti, che rallentano la capacità di agire tempestivamente (ad esempio, per il reclutamento di collaboratori alla ricerca). Al contempo, in analogia con quanto avviene per la licenza UEFA, le università dovrebbero dimostrare in modo più trasparente i propri conti, adottando bilanci in contabilità economico-patrimoniale, più adeguati a dare evidenza della reale consistenza patrimoniale, economica e finanziaria delle loro attività.
Infine, la partecipazione alla Champions League comporta un aumento delle entrate finanziarie, che consente di rafforzare la squadra. Nel caso del sistema universitario, una parte di responsabilità dovrebbe essere assunta dai singoli governi nazionali. L’esperienza tedesca del progetto German Universities Excellence Initiative si muove in questa direzione: il governo federale ha individuato le nove università migliori, e ha assegnato loro un finanziamento straordinario per i prossimi cinque anni. Nel Regno Unito, da oltre quindici anni, il finanziamento pubblico alle università (per la parte ricerca) è basato su un processo di selezione, molto selettivo, dei dipartimenti migliori. Allo stesso tempo, però, è auspicabile che l’Unione europea svolga il ruolo dell’UEFA in questo settore: non attraverso una maggiore regolazione, ma mettendo a disposizione risorse per quelle università che, negli anni, dimostrino di saper eccellere su scala internazionale.
Dobbiamo prestare attenzione a questa sfida. L’ultima classifica del Times (edizione 2009) ha dimostrato che il Regno Unito ha già i suoi United, Chelsea, Arsenal e Liverpool in competizione: tra le prime dieci università al mondo, quattro sono inglesi (Cambridge, University College London, Imperial College London, Oxford). Non possiamo perdere tempo: altrimenti, non ci resterà neppure l’Europa League.