Nel suo ultimo articolo La rivoluzione? Stop ai docenti malati di metodologia Giorgio Israel di fatto fa una bella lezione di metodologia dell’insegnamento della matematica, ovviamente da ottimo conoscitore della disciplina qual è. Poi però rifiuta il cosiddetto metodologismo che, a parere suo, sarebbe imperante nella scuola. Vi ho passato quasi tutta la mia vita, nella scuola media superiore intendo. Confesso che questo “impero del male” del metodo su base ideologica, indotto  da chissà chi, proprio non l’ho visto. Se devo dirla tutta ho invece rilevato con disappunto l’esatto contrario: la mancanza, spesso grave, di metodo da parte degli insegnanti. Bocciati in didattica, direi, più che in competenze disciplinari. 



Esempi? A cavallo tra il prossimo settembre e l’ottobre in quasi tutti i ginnasi del regno (quasi, perché è doveroso far salve le buone pratiche che pur esistono) si consumerà la tradizionale ecatombe in latino. Il primo esperimento in classe darà risultati negativi per oltre due terzi degli allievi e si alzerà il lamento del docente: dalle medie arrivano sempre più impreparati; che brutta classe mi è capitata quest’anno! A nessuno di quei docenti si porrà il dubbio che una prova che dà l’80% di esito negativo è essa stessa sbagliata e che otterrà il solo risultato di demotivare gli alunni.  Stessa cosa capiterà nei licei scientifici con la matematica. Altra strage degli innocenti. Perché, alla fine della fiera, i docenti ripetono i modelli dei loro docenti, che a loro volta hanno imitato i propri, in una catena che proprio virtuosa non è.



Altro che metodologismo dilagante. Imitazione e ripetizione pedissequa usque ad sanguinem. Mi viene in soccorso un’assai importante ricerca effettuata sui docenti immessi in ruolo negli ultimi anni, analizzata con grande lucidità e competenza da Laura Gianferrari per la Fondazione Agnelli.  A margine del discorso che voglio fare è curioso rilevare, ad esempio, tanto per parlare di matematica e del perché viene insegnata in un modo che a Israel non piace, che nel primo grado solo il 9,4% (sic!) degli insegnanti di matematica sono laureati nella disciplina e che nel secondo grado la percentuale sale solo al 58,6%. Ma quel che qui voglio mettere in evidenza è che i docenti segnalano notevoli difficoltà sul campo, ma non relativamente alle conoscenze disciplinari.



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“Un’ampia quota di neoassunti – osserva la Gianferrari -, invece (da un quarto ad oltre la metà) considera insufficiente la preparazione ricevuta in tutte le altre competenze richieste all’insegnante”. E sono molto significativi alcuni commenti espressi in forma aperta dai docenti intervistati: “Tutto quello che sono come insegnante è il frutto della mia personale esperienza concreta e della mia personale autoformazione, senza nulla togliere ai corsi universitari, che rimangono molto sul teorico e non scendono nella reale esperienza quotidiana”. E ancora: “Ritengo che un limite della scuola italiana sia rappresentato dalla preparazione iniziale sostanzialmente inadeguata. Il percorso di studi iniziale fornito dalle università e dai vari corsi abilitanti è centrato su articolazioni puramente teoriche e dottrinali, non sempre adeguati alla realtà operativa. Al docente, in sostanza, vengono impartiti nozionismi che oggi servono a poco per migliorare le competenze delle nuove generazioni”.

 

Il disagio dei docenti emerge con ulteriore maggiore evidenza da altri dati. “Il quadro è molto differenziato secondo l’ordine di scuola, con aspetti preoccupanti nella secondaria, dove la quota di intervistati che percepiscono come inadeguata la preparazione ricevuta è sorprendentemente alta, collocandosi tra il 35 e il 72,2 % rispetto alle varie dimensioni dell’insegnamento, ad eccezione, come si è detto, della disciplina d’insegnamento. Gli ambiti in cui la preparazione ricevuta appare loro più lacunosa riguardano: la capacità di affrontare la pluriculturalità (63% di insoddisfatti), di comunicare con le famiglie (48,9%), di partecipare attivamente alla vita dell’istituto scolastico (rapporti con colleghi e dirigente: 48%; assunzione di responsabilità nella scuola: 54%; partenariato con il contesto sociale e altre scuole: 72%).

Nella secondaria i livelli di difficoltà sono più accentuati, in particolare nel secondo grado, ove il 54,4% dei neoassunti vive come un problema la motivazione all’apprendimento dei ragazzi, la metà ha difficoltà a far raggiungere buoni risultati di apprendimento, il 40% a mantenere la disciplina in classe. Nel primo grado il livello di difficoltà è solo leggermente inferiore relativamente ai primi due aspetti (rispettivamente: 44,3% e 42,1%), identico per gli altri”.

 

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Davanti a questi dati, al fatto che metà circa dei docenti non riesce a gestire la classe, un approccio che io definisco, mi si perdoni la provocazione, da pedagogia omeopatica, è del tutto inadeguato e assai foriero di risultati negativi. Questa idea, molto letteraria e poco scientifica, del ”maestro” , scritto rigorosamente tra virgolette, che buttato in campo troverà da sé solo la sua strada, che il metodo non si insegna ma sta nel dna, nella vocazione, nel cuore e nella mente del docente, vir bonus dicendi peritus, che infiamma gli animi dei discenti alla maniera dell’attimo fuggente, è un’idea, appunto, omeopatica: due gocce di aqua putei al mattino e il mal di pancia passerà.

 

Dal Regolamento sulla formazione iniziale dei docenti mi sarei aspettato qualcosa in più. A che servono infatti le indagini se poi sui dati prevalgono gli stereotipi e le ideologie, anche quelle apparentemente negate?

E torno a ribadire che la scuola rimane elettivamente la “bottega” dell’insegnante. Lì si impara il mestiere. Con l’affiancamento in campo di esperti e di docenti capaci di ricerca e sperimentazione educativa in senso vero. La scuola ne ha, pochi, ma ci sono e attendono di essere valorizzati con contratti di lavoro finalmente differenziati e adeguati  riconoscimenti professionali e sociali. Per queste ragioni considero il Regolamento troppo sbilanciato a favore delle università.

 

La scuola, nonostante qualche affermazione di principio, rimane ai margini della formazione in ingresso dei docenti. Il TFA, antipatico pure nel nome, mi sembra troppo eterodiretto. Ma è evidente che pure le università “tengono famiglia” e fanno lobby, non solo i pedagogisti e i docenti di area metodologica!

 

 

 

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