Il fatto che i ragazzi in uscita dalla scuola superiore non sappiano scrivere non è certo una novità, ma i risultati della Rilevazione degli apprendimenti effettuata dall’INVALSI sulle prove scritte di italiano elaborate dagli studenti al termine del II ciclo di studi, recentemente pubblicati dal medesimo istituto, inquadrano e quantificano il fenomeno sulla base di dati numerici incontrovertibili.
Credo che nelle cause del complesso problema vadano distinti un aspetto teorico – inerente modalità e fini dell’insegnamento della lingua italiana – e uno pratico – inerente l’organizzazione del lavoro del consiglio di classe.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il professor Sabatini, in un’intervista pubblicata su questo giornale, ritiene che una strada percorribile possa essere quella di uno studio della grammatica italiana non limitato al solo biennio della scuola superiore, ma esteso anche al triennio, nel quale invece, a oggi, lo studio dell’“italiano” è studio della letteratura, e non della lingua; su questa linea si muovono anche, in modo del tutto condivisibile, le Indicazioni nazionali.
Tuttavia rimane il problema, che già si è avuto modo di affrontare su questo quotidiano, di come rendere funzionale lo studio della grammatica alla capacità di scrittura e, nell’ottica aperta dalle Indicazioni nazionali, di come rendere funzionale alla padronanza linguistica (conoscenza teorica e pratica) lo studio della letteratura.
Ritengo che lo studio della grammatica abbia un senso e risulti interessante per lo studente se e solo se non resta fine a se stesso, ma diventa la chiave per impadronirsi di quello straordinario strumento di espressione che è la lingua: invece di insegnare, ad esempio, a riconoscere il complemento di causa (in prima) e la subordinata causale (in seconda) – il tutto ovviamente dopo essere passati attraverso la classificazione di certe parti del discorso in preposizioni, locuzioni preposizionali, congiunzioni, ecc. -, risulta più economico e produttivo, nell’ottica dell’acquisizione di capacità di scrittura, evidenziare l’esistenza del rapporto causa-effetto, e mostrare come la lingua metta a disposizione molti modi per esprimere tale rapporto logico.
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Questo metodo permette, tra l’altro, anche di affrontare un’altra grave carenza da cui sono afflitti i nostri studenti, e che è in parte la causa dei loro insuccessi nel campo della scrittura: la capacità di capire un testo scritto, nel senso di essere in grado di cogliere e ricostruire i nessi e passaggi logici nei quali esso si articola.
È una capacità fondamentale, ovviamente, per lo studio e nasce dall’essere educati a considerare il testo come la risposta – o meglio, come una serie di risposte – a domande implicite, che è compito del lettore esplicitare. Ma essere capaci di riconoscere e ricostruire la struttura logico-ideativa del testo dovrebbe contribuire a rendere lo studente capace di costruire anch’egli testi dotati di una altrettanto evidente e facilmente ricostruibile struttura logico-ideativa (quelle che la Rilevazione degli apprendimenti definisce come competenza rispettivamente testuale e ideativa).
Dunque la formazione, o il tentativo di formazione, dello scrittore competente procede di pari passo con la formazione del lettore competente. Certo è – e qui si entra nei problemi di ordine pratico – che il compito di insegnare a scrivere non può gravare sul solo insegnante di italiano, ma deve essere obiettivo dell’intero consiglio di classe, come peraltro riconoscono e sottolineano le Indicazioni nazionali: una sola persona non può raggiungere (né, a quanto pare, di fatto raggiunge) un simile complesso obiettivo, e d’altra parte deve essere chiaro agli studenti che gli scritti di ogni materia e tipo, non solo quelli di “italiano”, devono rispondere a determinati requisiti di correttezza formale e contenutistica.
Nella prassi scolastica attuale, invece, benché le interrogazioni scritte siano sempre più impiegate nelle varie materie, anche in funzione e previsione della cosiddetta “terza prova”, non sempre o molto di rado i colleghi di scienze, fisica, storia, ecc. correggono la forma e/o lo sviluppo logico-concettuale delle risposte dei ragazzi, o per non essere costretti ad abbassare troppo i voti, o perché non di loro competenza.
Salvo poi lamentarsi con il collega di italiano del fatto che i ragazzi non sanno scrivere! D’altra parte, questa sorta di schizofrenia metodologico-valutativa è stata, almeno fino all’altro ieri, anche autorevolmente giustificata e ampiamente promossa: alcuni anni fa, a un corso abilitante per docenti di secondaria superiore, un preside di liceo classico ci spiegò che gli insegnanti di lettere non dovevano tenere conto, nella valutazione degli scritti di italiano sul modello dell’esame di stato (ad esempio, un’analisi del testo), degli errori di ortografia, perché la correttezza ortografica non rientrava negli obiettivi specifici ed esplicitati di tale prova!
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Si apre però un secondo ordine di problemi, cioè quello della formazione dei docenti: dando per scontato – molto ottimisticamente – che la capacità di scrivere in maniera chiara e corretta non sia più considerata da nessuno dei miei colleghi, almeno di lettere, un “dono di natura”, da chi e quando viene insegnato ai docenti a insegnare a scrivere? Per quanto ne so e per quanto mi concerne, siamo nel campo dell’auto-formazione.
Un ultimo accenno alle tipologie di scrittura della prima prova scritta dell’esame di stato, in particolare alla tipologia A, meglio nota come “analisi del testo”, salita quest’anno agli onori della cronaca perché poco gettonata dagli studenti: non credo che essa vada mantenuta nella veste attuale, per una serie di ragioni, tra le quali la più forte mi sembra quella che essa non corrisponde più a quanto si legge negli obiettivi specifici di apprendimento di letteratura italiana stabiliti nelle Indicazioni nazionali, laddove si dice che “il gusto per la lettura resta un obiettivo primario dell’intero percorso di istruzione, da non compromettere attraverso una indebita e astratta insistenza sulle griglie interpretative e sugli aspetti metodologici”.