«È vero, l’italiano degli studenti che hanno fatto la maturità l’anno scorso non gode di buona salute, ma non è che prima fossero tutti piccoli scrittori. Non abbiamo dati comparativi. Serve più analisi della lettera, e una disciplina più severa». Luca Serianni, ordinario di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, interviene nel dibattito aperto su ilsussidiario.net da Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, sui dati preoccupanti diffusi dall’Invalsi relativi a un campione di compiti della maturità del 2009: il 54% dei candidati, secondo i dati, dovrebbe essere bocciato in italiano scritto.



Professore, com’è possibile che la situazione sia quella denunciata dall’Invalsi anche nelle scuole in cui lo studio dell’italiano è, o dovrebbe essere, a livelli di eccellenza? Che cosa non quadra?

Una premessa. Nell’interpretazione dei dati va tenuto conto che non disponiamo di dati comparativi e non sappiamo che cosa sarebbe emerso da una verifica analoga compiuta dieci o vent’anni fa: non è verosimile, insomma, che allora tutti i diciottenni fossero piccoli scrittori, poi decaduti da quel mitico eden. Detto questo, fisserei l’attenzione su tre fattori: primo, per ciascun alunno l’impegno didattico ha una rilevanza minore di un tempo (pensiamo all’incidenza dei compiti a casa, mediamente ridotta, o anche alle varie attività extrascolastiche che oggi scandiscono la giornata di un adolescente) e ciò può condizionare il profitto; secondo, le ore d’italiano sono poche, tenendo conto delle cose di cui l’insegnante deve occuparsi: lingua, letteratura (italiana e straniera), argomenti d’attualità. E infine, l’espansione trionfante dell’oralità anche in domini tradizionalmente riservati alla scrittura non agevola da parte dell’alunno l’assimilazione dei vari condizionamenti – ortografici, testuali, lessicali – che tuttora governano un testo scritto formale.



Sabatini dice che, a proposito di una regressione nell’uso della lingua scritta, le cause stanno anche in uno spazio eccessivo dato allo studio della letteratura. Leggendo chi è stato maestro nello scrivere non si impara a scrivere?

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Non credo che la colpa sia della letteratura in quanto tale, ma semmai della tendenza diffusa a prescindere dalla lettura dei testi e dall’analisi della lettera (sì, proprio la vecchia ma salutare pratica della parafrasi). L’esame attento di un testo letterario ha un potenziale educativo, anche linguistico, che non andrebbe disperso. Vedo che molti manuali di letteratura, anche ottimi, finiscono con lo schiacciare i testi letterari in una massa di informazioni e di stimoli che ne deprime fatalmente lo spazio: quadri storici, confronti con la storia dell’arte, della scienza, della filosofia, letture critiche. Tutto bene, per carità: ma il tempo della scuola è limitato ed è necessario porsi degli obiettivi prioritari: tra questi non può non esserci l’acquisizione della padronanza linguistica e l’arricchimento del proprio ventaglio espressivo.



 

Se la situazione è quella descritta dal rapporto, chi finora ha sbagliato, la scuola a dare maggiore peso alla storia della letteratura che non alla lingua, o piuttosto la società, visto che si tollerano sui media espressioni come “eccezziunale veramente” o “a me mi piace”? Persino la letteratura oggi “mima” il parlato: è una dinamica normale, da assecondare, o da contrastare?

Non c’è nessuna autorità esterna che possa dettare legge all’universo letterario. Del resto, la lingua non è immobile: un grande classico come Verga apparve ai suoi tempi come un eversore della grammatica e della buona lingua. Il problema è prendere coscienza dei vari livelli della lingua, in cui trovano spazio sia lo scritto formale sia il parlato colloquiale e in cui agiscono esigenze pragmatiche: a me mi piace risponde a un meccanismo di tematizzazione, come dicono i linguisti, e la sequenza non ci darebbe più fastidio, anzi, forse non ci faremmo nemmeno caso, se tra i pronomi figurassero altre parole: «a me tutto questo discorso, e per giunta fatto da chi non ha titoli per avanzare pretese, non mi piace». Esigenze pragmatiche, dicevo, o meccanismi ludici: eccezziunale veramente non è una minaccia alla lingua italiana, ma solo la citazione di un fortunato personaggio creato da Diego Abatantuono.

 

Non pare anche a lei che la lingua non sia sentita come una ricchezza di cui appropriarsi sempre più? Perché?

 

Credo che, in astratto, tutti sarebbero d’accordo sul fatto che scrivere ed esprimersi in modo corretto ed efficace nella propria lingua materna non sia un lusso ma una necessità. Si tratta di rinnovare l’impostazione didattica, creando dunque una curiosità, un interesse e una consapevolezza che spontaneamente non nascerebbero.

 

Il rischio è che anche approfondendo lo studio scolastico ci si arresti ad una pur utile strumentazione, ma non si riesca a veicolarne il valore. Si potrebbe fare a scuola qualcosa di più efficace perché gli studenti colgano la profondità e la ricchezza degli strumenti espressivi?

 

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La batteria delle prove scritte andrebbe incrementata e variata, senza rassegnarsi al tradizionale tema, che presenta varie criticità – anche nella riverniciatura del “saggio breve” assegnato agli esami di Stato. Molto più importante come potenziale educativo è il riassunto, che mette in gioco la comprensione di un testo dato, la sua corretta gerarchizzazione informativa, la capacità di dire l’essenziale in uno spazio predefinito oltre che di controllare tutti i livelli di scrittura. E sono essenziali, per acquisire padronanze specifiche, gli esercizi mirati (i test fattoriali o discreti, come si chiamano in glottodidattica): per esempio sulla punteggiatura, sui connettivi, sul lessico astratto (evincere vuol dire desumere, sconfiggere, persuadere…; un tipo faceto è spiritoso, attivo, distratto…); utile anche il cloze, ossia il completamento di una frase in cui sia stato omesso un elemento. Tutti questi esercizi, a mio parere, dovrebbero trovare spazio anche a livello di compiti in classe, non solo come occasionali esercizi domestici.

 

Gli studenti, e anche i professori, rivendicano giustamente il valore dell’autenticità nell’espressione, della scrittura come momento di conoscenza di sé e del mondo, e quindi valorizzano l’aspetto ideativo. Ma perché, in fondo, è necessario anche scrivere bene?

 

Un componimento non è una pagina di diario (o un blog), in cui conta solo la libera effusione di sé. Per arrivare a sviluppare un pensiero originale su uno dei grandi temi del nostro tempo occorre una disciplina molto severa, a partire dalla selezione degli argomenti utili. Scrivere bene richiede un impegno analogo a quello che nessuno metterebbe in dubbio per tradurre una versione di latino o per risolvere un esercizio di matematica.

 

Con le nuove Indicazioni cosa cambierà?

 

Il ridotto numero di ore, che colpisce in particolare il comparto umanistico, costringerà a fare delle scelte: di tutto di più è stato un efficace slogan per la RAI, ma non funziona a scuola. In particolare, mi auguro che si moltiplichino le occasioni di produzione linguistica scritta e che, nella letteratura, si rinunci a ogni velleità di enciclopedismo, ponendo al centro dell’attenzione pochi testi canonici, da leggere e da capire a fondo.

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