Le nuove tecnologie stanno rivoluzionando il nostro modo di apprendere e il nostro modo di insegnare. È un luogo comune, più un wishful (forse per qualcuno si tratta di un undesirous) thinking che una realtà già operante in profondità al di fuori di qualche nicchia, ma sicuramente, come molti luoghi comuni, traduce la percezione di qualcosa che sta avvenendo. Cambiano i modi in cui la conoscenza, in tutte le sue forme pratiche e teoriche, viene organizzata e talvolta sviluppata, e cambia il modo in cui il singolo viene a contatto con essa e interagisce con altri singoli e con la collettività sul terreno di queste conoscenze.



Una rivoluzione simile, si afferma spesso, è avvenuta poche volte nella storia: uno di questi momenti epocali sicuramente fu la diffusione della stampa; prima ancora, l’avvento della scrittura… Forse è fantastoria della cultura umana, ma si tratta sicuramente di immagini suggestive. Il rapporto tra maestro e allievo è stato modificato, non c’è dubbio, dalla possibilità di avere dei libri facilmente a disposizione; allo stesso modo, possiamo pensare che grazie alle nuove tecnologie questo rapporto stia evolvendo verso nuove forme che, forse, oggi non siamo in grado di prevedere. Dobbiamo quindi pensare che debba cambiare il senso stesso della lezione?



Un materiale prezioso per queste riflessioni ci viene dalla traduzione italiana di alcune pagine di Pavel Florenskij, dedicate al tema Lezione e lectio. Florenskij paragona il rapporto tra un libro di testo e un corso di lezioni “dal vivo” al rapporto che c’è tra il meccanismo e l’organismo. I primi termini rimandano a un piano, un progetto accurato e definito, in cui il fine di trasmettere viene raggiunto come esito di un lavoro ponderato di riflessione. I secondi termini, invece, evocano la vita nella sua imprevedibilità, e si caratterizzano per essere atti di creazione. La lezione, ci dice Florenskij, è un modo per insegnare attraverso l’evidenza, consapevoli che la “verità” scientifica è come il vento che non posa mai, è un processo inarrestabile. La lezione non deve insegnare questo o quel genere di fatti, ma creare il gusto della scientificità. Non è un principio nutritivo – a quello pensano i libri – ma essenzialmente fermentativo.



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Se c’è una disciplina per cui queste parole di Florenskij sono particolarmente significative, questa è la matematica, e naturalmente non è un caso. Non serve a nulla, lo sappiamo, guardare qualcuno – un insegnante o un compagno – che fa matematica, anche se la presenta brillantemente e la spiega accuratamente, elegantemente e senza errori, come un libro stampato. Anzi, più il lavoro di rifinitura e levigatura è spinto, più il rischio di nascondere quello che è la vera dinamica della matematica, e in particolare il senso delle soluzioni trovate a un problema, è forte. Più la spiegazione è asettica, perfetta, evidente nella sua indiscutibilità più lo studente crede di comprendere, senza entrare nell’organismo vitale della matematica.

 

Il matematico è un uomo libero, ha affermato con forza Jean Pierre Serre, uno dei più autorevoli matematici viventi: questa libertà deve essere vissuta in ogni lezione di matematica – lezione nel senso di Florenskij – se non vogliamo continuare a trovarci di fronte un panorama desolante di insuccessi formativi. Nelle nostre classi di matematica si vive abitualmente la didattica delle 8 E: Esporre Esempi, Erogare Esercizi, Esigerli Eseguiti, Evidenziare gli Errori. Finito il ciclo, si ricomincia con altri esempi che gli studenti devono più o meno imitare negli esercizi che proporremo.

 

Non è così che le cose funzionano, non è così che si innesca il processo di apprendimento, non è così che si sviluppa l’albero da cui si raccoglieranno frutti di formazione. La lezione di matematica deve essere un momento in cui l’insegnante e l’allievo fanno matematica: dice Florenskij che il gusto per il concreto, inteso come l’oggetto stesso della ricerca scientifica diretta, viene acquisito per contagio. La lezione è il momento del realismo, della realtà concreta della conoscenza vissuta dal maestro, che ne ha già esperienza, e dall’allievo, che ne sta acquisendo il piacere. La lezione è una tappa di un cammino verso una meta precisa, ma lungo il quale ci si può concedere il diritto di perdere un po’ di tempo ragionando su un dettaglio – un fiore, uno squarcio di panorama, un sentiero che non percorreremo – o contemplando un particolare, senza per questo smarrire la strada.

 

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Un libro non potrò mai prevedere tutte queste possibilità, proprio come non si possono prevedere tutte le forme concrete che la vita assume. In una lezione di matematica è una frase di un allievo, un errore di calcolo, una similitudine con un esercizio già svolto, mille altre situazioni, che possono stimolare questi momenti di lavoro sul concreto. Molto spesso chi decanta la matematica per la sua perfezione (che è un fatto reale!), per la sua algidità (che è un cliché!), è chi non la capisce. I matematici, al contrario, quasi sempre la fanno con passione, talvolta con sofferenza. Anche i nostri ragazzi soffrono sulla matematica, ma in un altro senso…

 

E allora, possiamo far sì che questa rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo ci aiuti a far lezione in questo senso? Io credo che sia possibile, e anzi inevitabile, purché si sia consapevoli che c’è un rischio molto forte che si può andare anche nella direzione opposta. È del tutto ovvio che non basta la presenza di una lavagna interattiva in più o di venti notebooks per cambiare una scuola; c’è però anche la tentazione più sottile di pensare che il ruolo dell’insegnante diventerà sempre di più quello di un manovratore di strumenti che, loro, creeranno gli ambienti e le situazioni di apprendimento. Non è così. Proprio perché gli strumenti sono più potenti abbiamo sempre più bisogno di veri insegnanti che sappiano far lezione, e di veri maestri nel senso più alto della parola: anche in matematica.