La tradizione degli studi sul linguaggio che si è costituita nell’Europa centro-occidentale dal Seicento, col suo razionalismo analitico applicato allo studio della grammatica – detto altrimenti “logicismo” -, non ha reso un gran servizio all’educazione, nella fattispecie linguistica, dei bambini e dei giovani. La famosa, o famigerata, “analisi” grammaticale, logica, del periodo, ha imperato nelle scuole di Francia e, poi, di Germania e d’Italia, fino a poco tempo fa, imponendo agli scolari l’idea che soltanto dopo la puntuale scomposizione dei costituenti elementari di una frase, cioè solo dopo l’analisi minuta, può darsi sintesi – che equivale a comprensione logica di un intero ricostruito dopo lo smontaggio.



Nessuno qui vuol dubitare dell’utile risvolto istruttivo e, finanche, formativo della prassi analitica: essa induce il discernimento, il rispetto (logico) delle differenze, le gradazioni e le gerarchie dei piani; non è amica, invece, dell’unità solida, dello sviluppo di una figurazione visuale delle cose e delle idee, circoscritte al ristretto olimpo della mente anziché colte per via di esperienza sensibile. Ma, quel che più conta, la sintesi non è mai il prodotto dell’analisi, anzi, è questa subordinata a quella, giacché l’avvenimento della conoscenza, per quanto sia graduale, è sempre sintetico, in virtù della natura segnica della realtà sia fisica sia immateriale.



Che la realtà sia segno non è proposizione astratta o un a priori della mente credula: è ragionevole evidenza che si attesta proprio nei particolari. Il particolare, infatti, non esaurisce, per sua natura, la carica d’interesse e di significato che pur esprime, ma necessita di un senso ulteriore, cui appunto rinvia. È la stessa esperienza a insegnarci a mettere le cose in relazione fra loro, a stabilire nessi, analogie, scoprire legami segreti (mai però arbitrarii o magici) fra gli oggetti e le dimensioni della vita, giacché l’uomo non sopporta la frammentarietà come condizione logica ed esistenziale permanente. Ed è sempre l’esperienza, questa volta d’insegnante, a confermare che il dettaglio, la specificità, l’analiticità di tanti contenuti didattici è accolta con tanto più favore quanto più se ne mostra il nesso col tutto: la loro funzionalità al tutto e, più ancora, la loro rilevanza e profondità.



Una lunga premessa per dichiarare con quali occhi (e senza quali occhiali) ho gustato la lectio con cui mi sono paragonato. Il profondo, l’immaginifico, il multiforme Pavel Florenskij è, come sempre, accurato nell’adoperare e nel calibrare i termini, mostrando la continuità solo parziale tra la lectio medievale e l’odierna “lezione”. E soprattutto è geniale allorché dichiara senza reticenze o ambagi che la lezione- tipico genere didattico-letterario – è “un atto di creazione che si manifesta in ogni dettaglio della … struttura”. Col che il linguista, scienziato e teologo ortodosso dichiara precisamente che le parole, che sono parte esse stesse del mondo reale, hanno un corpo (e un’anima) tutto da scoprire, un peso semantico che ci costituisce modificando la nostra autocoscienza e acuendo la nostra capacità di azione incidente (ma non eversiva) sul mondo.

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Nel contempo, forse proprio in virtù della sua forma mentis di osservatore curioso e di maestro e, più ancora, di credente che non trova soluzione di continuità tra fede e scienza, Florenskij rivela la grande distanza che lo separa dal razionalismo linguistico alla francese o dal positivismo della filologia tedesca, come pure dalla nascente e fortunata teoria linguistica generale di Saussure, che guardava alla lingua come a un “sistema” puro di segni impersonali, a un codice chiuso contenente già tutti i potenziali significati delle umane proposizioni.

 

La posizione assunta da Florenskij è insieme antica – classica e medievale – e avanzata: è l’idea di testo come luogo dei significati possibili che l’autore vi attua in una relazione attiva e interpretativa nei confronti della realtà. È l’idea di “azione linguistica”, che, mossa da un’intenzione amica ovvero curiosa oppure problematica e interrogativa nei riguardi dell’altro da sé, si fa logos, discorso ragionevole che mira a rendersi conto e a render conto della scoperta di ciò che esiste. Se la realtà è creata, il testo è l’atto – linguistico – che coopera alla creazione, è invenzione che rivela il senso delle cose, è infine partecipazione alla comunità degli uomini della novità intravista.

 

Un testo è però irriducibile a “documento”, è piuttosto un crogiuolo di nodi, di rimandi, d’inferenze, d’imprevisti. È anche l’esito documentale di un processo logico e affettivo e, insieme, il processo stesso, in cui intervengono accadimenti esterni alla mente dell’autore tali che interpellano la sua libertà o, se si vuole, la sua capacità ermeneutica. Non per caso il rapporto tra “il libro di testo e la lezione” viene esemplificato nell’analoga proporzione istituita tra “il meccanismo e l’organismo”: esatto come un orologio o un computer, il primo dei due termini risponde a un generale piano prestabilito dal pensiero; la lezione, invece, libera da formule razionali conchiuse, “come l’essere vivente, sviluppa i propri organi, rispondendo ogni volta alle esigenze che si manifestano in corso d’opera”.

 

L’insistito ricorso di Florenskij a immagini rappresentabili per restituire al lettore l’idea quanto mai libera di lezione – una conversazione, una passeggiata, una gita, priva però dell’ossessione della meta programmata – rivela più cose: (1) una genuina e inesausta voglia d’indagare, d’ispezionare il mondo col suo mistero incessante, senza altri divieti se non la negazione dell’evidenza ontologica e la manipolazione della persona; (2) il suo, di Florenskij, essere veramente oltre, ben al di là degli steccati epistemologici che separerebbero le “due culture”: uno solo, infinito e prossimo, è il mistero della natura, talché l’occhio del matematico e l’occhio del poeta si fondono nel medesimo sguardo; (3) una vivacità (enérgeia) del conoscere non soltanto interna all’uomo, ma condivisa con quanti concorrono con noi a cercare la verità o, meglio, a sorprenderla nei dettagli che di continuo cadono sotto i nostri sensi, “come il vento che non posa mai”.

 

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Siamo agli antipodi del paradigma kantiano di scienza denunciato dal filosofo francese Fabrice Hadjadj ne La terra strada del cielo: “La scienza si riduce a una fantasia, e la sua validità si misura in base alla coerenza interna del suo discorso o alla sua efficacia tecnica. Non c’è più alcuna verità, poiché è impossibile riferirsi a una realtà esterna, ma una moltitudine di prospettive, di soliloqui carcerari, dove le parole non svelano e, anzi, avvolgono le cose come un sudario nei carri funebri che sono i nostri crani”. Una scienza siffatta non può essere attraente per un giovane che desidera sapere come stanno le cose davvero.

 

Per parte mia, come insegnante e preside ormai di lungo corso, non posso se non identificarmi con la visione “larga” che Florenskij dà della lezione, che definirei “percorso della ragione condivisa”, attribuendo a “ragionare” l’originale accezione di conversare, ossia di muoversi congiuntamente per trovare un accordo. Detto altrimenti, non si dà pensiero puro, scisso dalla parola comunicata, scambiata, coi miei simili, per cercare di trovare il senso delle cose che consistono a prescindere dalla mia volontà: verum e verbum sono parenti stretti. La lezione intesa come un testo vivente, anzi, ciò che in sostanza “fa testo”, in quanto illumina di senso anche l’asettico (mi si passi il bisticcio) libro di testo. Con due precisazioni.

 

La prima: in una buona lezione, il cui primo scopo resta il far capire agli uditori di che si tratta, non v’è nulla di casuale né di casual, nemmeno quando l’insegnante si sofferma e si dilunga o retrocede o apre digressioni (e lo farà col dovuto tatto), portato com’è a trasfondere quell’energia conoscitiva che lo appassiona. C’è, insomma, nel docente o, meglio, nel maestro la sollecitudine ad affinare negli allievi quella che chiamerei “intelligenza dello sguardo”, che è straordinario motore d’intelligenza tout court – e tale moto perpetuo, per quanto atteso e sollecitato, è ogni volta per me che insegno un esito sorprendente ed eccedente le mie aspettative. In questa luce, la lezione è un testo più ricco di un manuale scolastico – di necessità depurato di qualunque elemento svii dal rigoroso procedere argomentativo -, perché realizza, per il tramite del corpo e della voce, quella saldatura di intelletto e affetto che raggiunge il cuore, cioè la persona intera. In educazione, va rovesciato il senso convenzionale conferito al celebre adagio verba volant, scripta manent.

 

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Seconda precisazione. Niente di più vero di quanto Florenskij dice dell’effetto prodotto da una lezione o da un ciclo di lezioni, ossia il formarsi di un’autentica mentalità scientifica ovvero, come più correttamente scrive l’autore, “iniziare gli ascoltatori al processo del lavoro scientifico, introdurli alla creazione scientifica”. E tale risultato si ottiene immancabile, quando il maestro, una volta riuscito a far cogliere la corrispondenza tra la cosa e l’io dell’allievo – ciò che si chiama interesse -, può con la levità e la libertà contemplativa del viandante per boschi in cerca di funghi indugiare sui particolari e sui contorni dell’oggetto trattato, sia esso materiale (un minerale) o invisibile (un problema di diritto pubblico), a conferma dell’efficacia di quanto la saggezza pedagogica fin dal Medioevo ha tramandato: non multa (studere) sed multum, non tante cose, ma a lungo e intensamente.

 

Mi accorgo bene di aver dato una rappresentazione della lezione unilaterale o unidirezionale, a parte docentis. Mi correggo subito: la classe non è un aggregato ovino sprovveduto e bisognoso del pastore che lo conduca; al contrario, essa è una comunità di persone uniche, originali e altrove irreperibili, con un tratto distintivo che le accomuna: il desiderio del vero, che, una volta acceso e immesso nel misterioso dinamismo della scoperta e dell’incontro di ciò che c’è ma di norma non vediamo né udiamo, letteralmente si scatena in una folla impetuosa di domande, riflessioni, valutazioni, di nuovo interrogativi, appelli, che non danno più tregua all’insegnante. Allora, sì, la lezione si tramuta in un laboratorio continuo, in un work in progress, che non si verifica affatto nella finzione cinematografica, dunque irreale, del rabdomante prof. Keating, ma diventa esperienza fattuale, ancorché segreta perché mai assurge alla ribalta mediatica, là dove esistono scuole i cui docenti accettino di sacrificare il proprio orgoglio (frustrato, immancabilmente) per disporsi al servizio della conoscenza e alla cura della ragione dei giovani.

 

Per la via indicata, ove il maestro si sia davvero dedicato a condividere con gli alunni un itinerario di studium, di amore attento e paziente alle cose, e abbia lasciato crescere e maturare in essi, non tanto le tecniche e le astuzie dialettiche e calcolatorie, quanto l’acume dello sguardo e le categorie del giudizio, allora assistiamo a quello che i teorici della linguistica e della semiotica chiamano “effetto di riscontro”: il contributo, reale e non affatto pro forma o fittizio, che il discepolo fornisce all’elaborazione critica e consapevole di un sapere disciplinare che supera il confine scolastico, si fa scienza sul serio e, soprattutto, concorre all’edificio della coscienza, aiuta a vivere con instancabile fiducia ogni istante della vita (Ché è bello vedere come va a finire…).

 

 

 

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