Se il metodologismo o pedagogismo è una delle malattie della nostra scuola, l’altra – ancor più pervasiva e pericolosa – è il disciplinarismo. Ambedue esprimono posizioni astratte. La questione “scuola” va collocata sul piano molto concreto dell’esperienza e non della contrapposizione delle categorie. Ogni insegnante sa che appena uscito dall’Università ha dovuto imparare ad insegnare. Ed insegnando ha parimenti imparato – se è una persona dotata di un minimo di sale in zucca – che l’ordine delle cose che aveva in testa non coincideva con l’ordine o la sequenza di apprendimento dei ragazzi; o, almeno, che occorreva fare i conti con chi si aveva davanti.



Sapere bene le cose (nel loro ordine e struttura epistemica) non equivale a saperle trasmettere. Il primo non contiene l’altro. Il secondo presuppone il primo, certo, ma è molto di più. E non in termini di astratte categorie pedagogiche, ma, appunto, di pratica dell’insegnamento. Aggiungiamo poi un altro dato di realtà: sempre più, oggi, viene meno un contesto che permette/aiuta i ragazzi a riflettere e maturare quanto appreso a scuola. Lo iato tra la loro esperienza quotidiana e le modalità di trasmissione dei contenuti della scuola è fortissimo. Nella realtà tutto è in movimento ed i confini saltano. Ciò che occorre è una capacità di lettura e di trasferimento trasversale delle conoscenze, di applicazione a contesti diversi; la velocità e moltiplicazione esponenziale dei saperi impongono soprattutto una capacità di selezione e di ricerca mirata ed intelligente. “Imparare ad imparare”, ma non in modo astratto, bensì contestualizzato, operativo: possedere e saper cogliere l’applicabilità e la funzionalità delle categorie, delle strutture logiche e dei linguaggi formalizzati in situazioni diverse; e reciprocamente: riconoscere la stessa forma e struttura in contesti diversi.



A fronte di tutto ciò, qual è lo spettacolo più diffuso nel nostro sistema? Siamo realisti. Nella grande maggioranza dei casi – sicuramente nella scuola secondaria (ma con forte rischio anche nella primaria) -, lo “sport” preferito rimane ancora quello dell’addestramento disciplinare: fare del ragazzo, contemporaneamente, il piccolo matematico, il piccolo letterato, il piccolo scienziato, ecc. L’insegnamento pare il ballo della mattonella. Fuori dal perimetro della propria materia non si esce, se non con enormi difficoltà. Il lavoro collegiale è pratica marginale, da corridoi; chiedere un’ora a un collega è ancor peggio di chiedergli un rene. Come se le ore fossero proprietà privata. Come se l’ora di insegnamento coincidesse con l’ora della propria materia e non fosse strumento comune. Gli obiettivi di insegnamento definiti non nell’orizzonte comune del Profilo in esito del ragazzo, ma sempre all’interno della propria disciplina. Con la pretesa, ovviamente, che poi il ragazzo faccia i dovuti collegamenti e si muova trasversalmente…; gli insegnanti no, ma lui sì.



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Certamente a questo panorama ne va aggiunto un altro, quello del metodologismo astratto. Presente in diversi contesti; ma che non mi pare così diffuso come il primo. Esistono poi situazioni di ibridazione. Di tutti questi casi, comunque, non saprei quale sia il più devastante.

 

Tutto ciò, velocemente e brutalmente premesso, veniamo al nodo “università”. La preparazione accademica, riferita ai contenuti disciplinari, costituisce un requisito, assolutamente non “il” requisito dell’insegnamento. La finalità e l’ordine dell’apprendimento non sono infatti quelli della ricerca e dell’organizzazione scientifica dei saperi. Si tratta di due piani assolutamente diversi. Occorre spezzare il cerchio che struttura la mente degli insegnanti secondo la forma accademica e disciplinare e che quindi, a cascata, porta gli stessi e la scuola in genere a preparare gli studenti all’accesso all’università e via da capo. Circuito chiuso. Con effetti oggi sempre più negativi per il futuro dei giovani.

 

Con la Legge 53 è stato introdotto un criterio nuovo, che però rischia di rimanere lettera morta: finalità della scuola è quella di sviluppare un Profilo complessivo, ad un tempo educativo, culturale e – nota bene – professionale. Anche il Liceo dovrebbe tenere presente questa dimensione. Anche il Liceo dovrebbe professionalizzare, non esclusivamente al mestiere dello studente universitario, bensì tenendo in considerazione la finalizzazione delle competenze in esito alle dimensioni della vita sociale e lavorativa. Più semplicemente: della realtà del mondo in cui i ragazzi vivono e devono inserirsi. Nella prospettiva delle competenze chiave europee, richiamata (speriamo non solo in senso retorico) anche nei testi degli ultimi Regolamenti dell’Istruzione ed in quello dell’Obbligo. Ma gli insegnanti, usciti dall’università, quale esperienza hanno della realtà dell’insegnamento e del “mondo”? Esperienza; non altra teoria pedagogica o metodologica. Più vado avanti e più rimango convinto del fatto che l’alternanza scuola-lavoro dovrebbe innanzitutto essere prevista per i docenti. Il che vale, naturalmente e a maggior ragione, per l’insegnamento.

 

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Un’ultima considerazione, per chiudere. Il monopolio dell’università deve essere messo in discussione anche su altri fronti: pensiamo all’assurda ed impropria tendenza a fagocitare qualsiasi livello di formazione alle professionalità, compresi quelli a carattere più tecnico, impedendo così lo sviluppo – sempre più necessario – di un livello terziario dell’Istruzione e formazione professionale; pensiamo poi all’assorbimento ed al mantenimento nell’ambito dello studio fino a tarda età dei giovani, con conseguente dilazione del loro effettivo ingresso nella vita sociale e professionale.

 

Ho letto per la seconda volta sul Corriere della Sera – con riferimento al recente rapporto della Fondazione Agnelli – della tendenza delle aziende a non guardare tanto al titolo, quanto al possesso della lingua straniera ed alle esperienze già capitalizzate. Meglio più giovani e magari senza laurea, ma con questi requisiti. A 30 anni si rischia già fortemente di essere fuori mercato. E la disoccupazione giovanile sta crescendo in modo macroscopico. Ho poi presente i casi concreti di ragazzi che arrivano al quinto anno delle secondarie già stufi e soprattutto di quelli che non ne possono più di continuare studiare all’università, che finiscono a 27, 28 anni e sanno che da lì la strada non è in discesa, ma ancora tutta in salita; che dovranno cominciare tutto daccapo, perché il titolo c’entra poco niente con la professionalità reale che andranno ad esercitare e che sono disposti a qualsiasi lavoro, precario e non congruente col proprio titolo, pur di non rimanere tagliati fuori dai giochi.

Porre questi problemi è metodologismo astratto? Penso di no.

 

 

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