Tra le molte misure previste dalla legge di riforma dell’università approvata il 29 luglio dal Senato con 152 voti favorevoli, 94 voti contrari e 1 astenuto, e che dovrebbe essere discussa alla Camera in autunno, due di quelle che riguardano i docenti hanno suscitato un notevole polverone mediatico: l’età di “rottamazione” e il reclutamento.



L’idea alla base della decisione di anticipare il pensionamento dei docenti è quella di levare di mezzo i “dinosauri”, per favorire l’ingresso dei giovani o per accelerare la progressione di carriera dei ricercatori: a queste considerazioni pare estraneo il concetto di “qualità”, quasi che chi passa i 65 anni diventi automaticamente rincitrullito, mentre chi ne ha meno di 35 è per questo solo fatto brillante e capace di innovazione, ignorando la fondamentale asserzione di Carlo Cipolla secondo cui la percentuale di stupidi è equamente distribuita in tutte le funzioni e le fasce di età.



Scherzi a parte, è innegabile che l’università italiana sia un’università vecchia: il vero problema, a mio parere, non è tanto il permanere in servizio di docenti decrepiti abbarbicati alla cattedra che ricordano i personaggi dei libri di Woodehouse che vengono trovati morti nelle poltrone del loro club con il Times aperto sulla faccia solo dopo alcuni giorni, quanto l’età dei cosiddetti “giovani”.

L’età media del corpo docente era nel 2008 di 52 anni, determinata dai 59,6 degli ordinari, 52,8 degli associati e 45,2 dei ricercatori, e in dieci anni questa età media è aumentata di 1,2 anni, aumento dovuto soprattutto ai ricercatori.



Nello stesso anno, i docenti con più di 60 anni erano in Italia ventisei su cento (uno su quattro!), contro tredici in Germania e Svezia, undici in Francia, otto in Spagna e sei in Inghilterra; i docenti con meno di trent’anni erano uno su cento (tre in Germania, cinque in Francia e Spagna, dodici in Inghilterra e quindici in Svezia).

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Se si riconosce agli accademici di consolidato valore e reputazione il delicato compito di formare i più giovani, in Italia potranno al massimo insegnarsi fra di loro, o contendersi all’arma bianca l’unico trentenne disponibile per i ventisei ultrasessantenni. I ricercatori con più di sessant’anni erano l’8%: oltre tremila (12,6%) sono entrati in servizio prima del 1980, e hanno passato trent’anni nella fortezza Bastiani ad aspettare i Tartari. Oggi l’età media di entrata in ruolo è di 36,3 anni (nel 1998 erano 35,1, con un picco nel 2003 di 39,7 anni), legata anche alla lunghezza del percorso per cui si termina il dottorato intorno ai trent’anni.

 

Gli ordinari, per parte loro, entrano di ruolo a 52,3 anni, anche se non mancano quelli che nel cinema sarebbero gli Oscar alla carriera, che portano alla cattedra di prima fascia docenti che hanno più di sessant’anni, e che considerati i tre anni di straordinariato passerebbero con le nuove norme direttamente alla pensione.

 

La finanziaria del 2008 che eliminava progressivamente i fuori ruolo (non più previsto dal 2010) ha portato a molte stime delle possibili uscite, stime che vanno corrette tenendo conto che negli ultimi dieci anni le uscite effettive sono sempre state più del doppio di quelle previste.

 

Da qui al 2016, dovrebbero andarsene circa undicimila docenti, pari a circa il 18% del totale, ma l’esperienza suggerisce che saranno molti di più: dato che negli ultimi sei anni sono entrati in servizio circa diecimila ricercatori ma solo poco più di 3500 fra associati e ordinari, e che ci sono pesanti vincoli alla sostituzione, e tempi geologici di svolgimento dei concorsi (su cui manca un regolamento organico), ci si chiede chi si occuperà degli studenti.

 

Dovrebbe essere chiaro che il vantaggio dell’esodo dei baroni non sarà finanziario, sia perché le singole università risparmiano, ma lo Stato deve pagare le pensioni, e in più assumere dei nuovi docenti, sia perché i fondi di ricerca esterni solo raramente vengono dati ai giovani ricercatori, dato che, a torto o a ragione, di solito i committenti cercano un accademico affermato a cui affidare i propri soldi.

 

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La lodevole intenzione di fare largo ai giovani cozza allora con due o tre dati di fatto:

 

L’andamento erratico e occasionale dei reclutamenti ha praticamente smontato, o comunque gravemente danneggiato, le vecchie “scuole”, in cui intorno al barone del caso si formava un gruppo di persone che progressivamente crescevano, rispettando una gerarchia che aveva a che fare sia con il merito che con l’esperienza. Queste scuole purtroppo oggi si sono trasformate in gruppi di potere;

 

La mancanza di qualsiasi valutazione reale impedisce di distinguere fra chi lavora bene e chi lavora male, o non lavora affatto, e questo non è legato né all’età né alla posizione di ruolo accademico;

 

è necessario decidere con chiarezza quali compiti, all’interno di un ateneo, debbono eventualmente essere svolti dagli ordinari, che sono pagati anche per questo. Non si può pensare di affidare gratis ai ricercatori compiti di governance della ricerca o della didattica (possono invece gestire singole ricerche o progetti, in cui magari sono assai più qualificati degli “anziani”).

 

Mi sembrerebbe quindi preferibile fissare un’età a partire dalla quale i docenti possono (non necessariamente devono) andarsene, lasciando alle università la possibilità di trattenerli in servizio per compiti specifici, amministrativi o di ricerca, e soprattutto di consolidamento dei più giovani, a partire dalle scuole di dottorato, tenendo presente che fino a che non si attua una valutazione sistematica, ogni criterio di ingresso può essere strumentalizzato, e ogni criterio di uscita può essere equivoco. L’università ha bisogno di teste pensanti e di passione per la ricerca e la docenza, che non dipendono solo dall’età.

 

Il processo di rinnovamento, infine, non può avvenire in mancanza di un’adeguata politica di reclutamento, che raccolga quanti più giovani dottori di valore, li provi per un certo periodo (sei anni mi pare un periodo adeguato), e decida poi se sono o no portati per l’accademia, nella sua duplice valenza di ricerca e trasmissione del sapere.

 

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Al termine di questo periodo, o si passa alla docenza – o alla ricerca nelle strutture di tipo CNR – o si esce, magari con una riprotezione nella scuola secondaria superiore. Quanto alle forme di reclutamento, non ce n’è una che non possa essere in qualche misura piegata o controllata, e quindi tanto varrebbe lasciare alle università di reclutare i docenti tra quelli in possesso dei requisiti necessari: se reclutano dei dementi grazie al sistema elegantemente definito del “familismo amorale” (già lo fanno, già lo fanno…) vedranno scadere la propria valutazione e avranno meno fondi e meno studenti. Ma per molte università l’autonomia cessa dove comincia l’erogazione dei fondi pubblici…

 

P.S.: Se qualcuno se lo chiedesse, io sono andata in pensione il mese successivo al mio sessantacinquesimo compleanno, pur continuando a collaborare con la mia università.