Insegnare a scrivere non è cosa facile. Il professore di lettere conosce bene, soprattutto dopo aver corretto un pacco di compiti, il senso di impotenza che lo prende di fronte agli errori di ortografia, di punteggiatura, alla povertà lessicale e argomentativa dei suoi studenti. Non è facile neppure individuare modi per ottenere una scrittura più corretta e corposa. Al di là del consiglio, più volte disatteso, di leggere dei buoni autori, lo spazio che durante un anno scolastico si riesce a dedicare a prove di scrittura è esiguo. Perciò un’abilità così importante come quella di esprimersi in modo comprensibile ed efficace nella scrittura della lingua materna è di fatto affidata alle qualità naturali e, nei casi migliori, all’esercizio spontaneo degli studenti. Cioè al tanto deprecato autodidattismo. Si potrà biasimare che le cose stiano così, ma purtroppo questa è, in soldoni, la realtà.
Ciò non significa che non si possano e non si debbano cercare dei correttivi: anziché lasciar correre come distrazione l’errore anche isolato di ortografia, si può provare a penalizzarlo pesantemente e difficilmente sarà ripetuto. Più arduo sarà trionfare sulla virgola prima dell’infatti, ma si sa, il quattro non è infallibile. Ortografia e punteggiatura non sono tutto, ma rivelano la capacità di stare dentro a una norma e l’inizio di un ordine logico del pensiero; sono dunque indicativi di una competenza che non deve essere considerata secondaria, come purtroppo è accaduto da troppi anni in ogni ordine di scuola.
L’insuccesso nella scrittura tuttavia ha origini più profonde che un insegnamento linguistico inadeguato. Forse una delle cause è da ricercare nella povertà di esperienza dei ragazzi, nella difficoltà che essi incontrano a prendere posizione nei confronti delle cose e a rischiare di dire il proprio giudizio. Questa reticenza emerge ancora di più davanti alla pagina bianca e tutte le tecniche che si possono suggerire sono armi spuntate, strumenti resi meno efficaci dalla debolezza di mani insicure. Ciò non toglie che sia giusto offrirle e spesso, colpevolmente, non lo si fa.
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Tra i mezzi meno complicati e che i secoli hanno dimostrato utili allo scopo, si può ricorrere all’antica retorica, che prescriveva l’inventio e la dispositio come le due prime operazioni per costruire una orazione. Di esse per i compiti scritti viene indicata normalmente solo la seconda, tradotta con il termine di “scaletta”, ovvero una sorta di ordine dei pensieri. La prima viene di solito trascurata, come se le cose da dire venissero da sole, senza alcuna educazione alla lettura corretta della traccia e a trovare materiale utile alle diverse possibilità per svolgerla in base al proprio punto di vista e alle informazioni di cui si dispone.
E’ così che tanti temi iniziano nel modo peggiore, con la definizione della parola centrale della traccia desunta dal vocabolario, per coprire malamente l’assenza di contenuti rielaborati personalmente. Può essere utile passare qualche ora in classe nell’esercizio individuale e comune, nel confronto e nella correzione di queste due prime fasi, alle quali si deve aggiungere poi la stesura vera e propria. La maggior parte delle tipologie proposte dall’esame di Stato, che orienta i compiti in classe dell’intero triennio, non facilita a parere di molti l’insegnamento e l’apprendimento di una modalità di scrittura corretta e argomentata. Ma con esse, e non con altre, occorre misurarsi, se si vuole dare al lavoro proprio e degli studenti un obiettivo pratico.
Con la loro introduzione il compito si è fatto più complesso e insieme più superficiale: le facoltà dell’intuizione e della sintesi sono quasi del tutto rese inattive, le capacità critiche vengono appiattite da citazioni di cui perlopiù si ignora l’origine storica e ideologica. Il mondo in cui viviamo è descritto anche da una cosa risibile come le prove di italiano dell’esame di Stato, cui è stato persino tolto il nome di esame di maturità. I rimpianti sono inutili ma, se le parole sono cose, non sarebbe inutile pensarci su un po’.