Non vi è intellettuale, politico, giornalista, funzionario di associazioni datoriali o sindacali o della pubblica amministrazione che non ribadisca ad ogni pié sospinto l’importanza della formazione professionale, sia per sostenere il percorso educativo delle persone, sia per sostenere lo sviluppo economico.

Il recente rapporto UNIONCAMERE (2010) e i dati del sistema informativo excelsior (2010) ribadiscono il mismatch tra domanda e offerta e di lavoro, in cui si evidenzia che le imprese che hanno intenzione di assumere nel 2010 (pari al 18,6% del totale delle imprese con almeno 1 addetto) prevedono di incontrare difficoltà nel reperimento della figura professionale nel 38% dei casi. Tra le figure professionali più richieste in termini di numerosità assolute figurano quelle di barista, cuoco, pasticcere, parrucchiere, estetista, ausiliario vendite, ausiliario socio assistenziale, idraulico; per queste figure le difficoltà di reperimento giungono a percentuali dell’80%.



Tra le competenze più richieste dalle imprese dopo la capacità di lavorare in gruppo con forti gradi di autonomia si collocano quelle relative alle capacità manuali. Sfatando un altro tabù le assunzioni previste in base alla tipologia di contratto prevedono per le figure in uscita dalla formazione professionale regionale che il 50,55% assuma la forma del contratto a tempo indeterminato (meglio solo i laureati con il 57,45%).



A fronte di questi dati viene da chiedersi come sia possibile che in Italia ci siano voluti 7 anni (dal 2003 al 2010) per passare dalla fase sperimentale a quella ordinamentale per i percorsi triennali di qualifica professionale e ancor di più stupisce che solo un pugno di regioni abbia messo in atto tale sperimentazione. Allo stesso modo nasce la domanda sul perché dopo 10 anni che si parla di politiche attive esse continuino a ristagnare nel nostro paese.

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Credo che una delle ragioni di questa situazione sia proprio legata alla sterilità del dibattito di questi anni. Da un lato una mentalità licealista che contrappone da decenni theoria e techne continua a ritenere, senza alcun rispetto delle diversità di apprendimento delle persone, che i giovani debbano andare a scuola il più a lungo possibile anche quando è evidente che essa risulta essere sostanzialmente un parcheggio.



 

L’esito di questo atteggiamento è sotto gli occhi di tutti, abbiamo il maggior tempo di transizione tra la scuola e il lavoro dei paesi OCSE (il primo inserimento è situato in media al venticinquesimo anno di età e per oltre il 45% delle persone sino a 35 anni esso non ha alcuna attinenza col percorso scolastico svolto in precedenza), la popolazione attiva che ha terminato la scuola secondaria superiore (68%) è di 18 punti più bassa della media Ocse e di 32 rispetto alla Germania, e anche nei più giovani (25-34 anni) resta rispettivamente di 11 punti e di 17 punti, i tassi di dispersione sono altissimi e come detto mancano le figure professionali richieste dalle imprese.

 

Dall’altro si fa largo una concezione che vede nell’impresa l’unico soggetto abilitato ad educare e a facilitare l’acquisizione di competenze. Anche qui non sfugge il tratto ideologico dell’approccio che mostra una debole conoscenza del nostro tessuto produttivo (fatto prevalentmente di imprese piccole) e delle sue capacità di conseguire autonomamente tali risultati.

 

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A fronte di questi 2 atteggiamenti poco realisti è cresciuta negli ultimi 2 anni un’ostilità verso il sistema formativo descritto ripetutamente nella migliore delle ipotesi come un mondo autoreferenziale avente come solo scopo quello del proprio mantenimento e nella peggiore come un covo di banditi dediti a tangenti e truffe (si veda per esempio l’articolo comparso giovedì scorso su Repubblica).

 

Occorre uscire dalla sterilità di queste contrapposizioni tra scuola e sistemi formativi, e tra sistema educativo e sistema imprenditoriale. Occorre lavorare per una grande alleanza tra i sistemi educativi (scolastici e della formazione professionale) e il sistema delle imprese. Ma per farlo ci vuole coraggio, perché è vero che a fianco di tanti enti (soprattutto del privato sociale) e tante persone (che sono la maggioranza) competenti, appassionate desiderose di educare e trasmettere saperi, ci sono numerose mele marce. Ci sono prassi nell’attribuzione delle risorse pubbliche che non premiano il merito, ma nel migliore dei casi si basano solo sul passato, nel peggiore dipendono da clientele di vario tipo. Se non si affronta questo nodo le eccellenze non potranno mai emergere e il livellamento verso il basso sarà inevitabile.

 

Ma cari politici, funzionari, intellettuali, etc, pare difficile pensare che molti di voi non conoscano queste situazioni e allora se non si agisce e perché non si ha il coraggio di governare, si teme la piazza o la reazione dei garanti dei diritti di pochi rispetto a quelli di tutti o si ha paura di perdere fette di consenso a dir poco opaco. Il mondo della formazione si deve mettere in discussione, ma per farlo ha bisogno di una prospettiva chiara, di sapere che i suoi sforzi saranno riconosciuti se saprà portare i risultati che da esso ci si attende. E non si trovi la scusa delle risorse scarse, essa è debole per almeno 2 ordini di motivi. Il primo è che se si intraprende la strada di premiare il merito e di penalizzare chi non produce risultati i risparmi saranno ingentissimi e tali da garantire le risorse per lo sviluppo di un sistema adeguato. Il secondo più di natura culturale risiede nella capacità di distinguere un investimento (qual è quello sull’educazione) da un costo.