Per una riflessione sulle implicazioni del titolo del Meeting 2010 sul terreno della filosofia e della pratica educativa, mi limito qui ad un richiamo sbrigativo all’impianto antropologico di fondo. D’altronde, è sempre lo stesso dalla prima edizione, quella del 1980, dedicata ai diritti umani. In continuità filologica e concettuale con il Libro della Genesi, “il cuore del cuore” dell’uomo è il logos/verbum e, pertanto, “il cuore dell’uomo è infinito”. Perché è aperto sull’Essere, che lo eccede da ogni lato. L’infinitudine dell’orizzonte coscienzIale umano: questo è il dato. E poiché è infinito, desidera cose grandi e prova anche a farle. In singolare assonanza e contemporaneità rispetto al testo della Genesi (VI-V sec. a.C.) è un frammento di Eraclito (520 a.C.-460 a.C.): “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la vita, tu potresti mai trovare i confini dell’anima, così profondo è il suo Logos!”.



Il che è come dire che l’infinitudine che sta dentro il cuore dell’uomo è parecchio di più dell’entelecheia aristitotelica, dell’impetus di Lucrezio, della universale libido freudiana: è un’apertura d’intenzionalità all’infinitudine. Questo è, appunto, il logos umano. Esso precede i dualismi artificiosi, che sono insorti dalla rottura tra essere e pensiero, da Cartesio in avanti: cuore e ragione, esprit de géometrie e esprit de finesse, razionalità e sentimento ecc… In ogni caso, questa “teoria” del cuore umano rende conto del “gran guazzabuglio” che ciascuno di noi è; delle inquietudini, delle malinconie, delle assenze, degli slanci e del dolore, delle solitudini che attraversano la vita… Ora, ogni intenzione e azione educativa, in cui si dispiega la naturale assunzione di responsabilità delle generazioni adulte nei confronti di quelle giovani, deve partire dalla presa d’atto di questo dato. Lasciar essere questa essenza, lasciar fiorire questa intenzionalità: questa è l’educazione. Tenere spalancata la finestra delle giovani generazioni sul mondo.



Viceversa, incombe una tentazione – anch’essa naturale – delle generazioni adulte di “ridurre” quel dato, di addomesticarlo, di governarlo, di forgiarlo. Il motore di questa tendenza è la paura della libertà dell’altro, l’angoscia del nuovo e imprevedibile inizio, che il ragazzo rappresenta. L’altro è un limite al tuo disegno di piegare il mondo. E’ il segnale della tua finitudine di persona e di genitore. Fin qui siamo, tuttavia, nel campo di una tensione strutturale tra le generazioni. D’altra parte, le giovani generazioni hanno sempre trovato delle vie di fuga e esercitato delle resistenze. Ma ben altre conseguenze si sono registrate sul terreno delle filosofie e delle pratiche educative, da quando si incominciò, agli albori dell’epoca moderna – si pensi alla Nuova Atlantide di Bacone – a guardare alla storia umana attraverso il prisma di un progetto di dominio della natura e di costruzione dell’umanità ad opera di minoranze intellettuali e borghesi.



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Il Seicento scientifico, l’illuminismo, il marxismo, il positivismo, il Novecento ideologico del comunismo, del fascismo, del nazismo hanno pensato – in termini molti diversi, si intende – il destino delle generazioni dentro un’ipotesi di signoria progressiva della terra e della storia e di una geometrica potenza dell’uomo nuovo. Lo Stato è di venuto lo strumento di questo progetto. Pertanto si è impadronito, a partire dal Settecento, del rapporto educativo tra le generazioni, ha piegato il tradizionale Trivium/Quadrivium dentro un assetto rigido di discipline, che ha organizzato, compartimentato, “disciplinato” il sapere umano. “Disciplina”: parola quanto mai ambigua, se per tutta una prima fase storica le politiche dell’educazione vennero poste alle dipendenze dei Ministri dell’interno e dell’ordine pubblico. Qui si segnala il passaggio dall’autorità come leadership educativa verso il sapere umano a autorità come costrizione amministrativa.

  

Il progetto di potenza, la riduzione del destino dell’uomo nell’orizzonte della polis, il ruolo decisivo dello Stato hanno generato gli apparati educativi moderni, nei quali il dato antropologico originario è stato manomesso e piegato. Ci interroghiamo, oggi, angosciati e increduli sulle ragioni che portano i ragazzi 0-10 anni all’apertura felice verso gli orizzonti infiniti della conoscenza e i ragazzi 11-19 anni – si intende che la scansione cronologica è del tutto schematica – alla noia; sulle cause che trasformano le scuole da centri di crescita del sapere in fabbriche tayloristiche della noia.

Certo, i saperi ci sono, bene organizzati, somministrati in modo ordinato e consequenziale via curriculum, gestiti nell’ordinamento amministrativo. Ma è troppo evidente che dal punto di vista dei ragazzi – che passano serialmente al cospetto di insegnanti, che a loro volta si avvicendano serialmente sulle cattedre – questo sapere è costituito ormai di materiali intellettuali inerti, che ingombrano la mente, senza nessuna relazione effettiva con la propria apertura al mondo e senza nessi di significato.

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Difficile che siffatta conoscenza, così accatastata nella testa dei ragazzi, si possa definire “un avvenimento”. Colpa di insegnanti impreparati, incapaci di essere “maestri”, salvo lodevoli e motivate minoranze? Certamente, purché si proceda nell’indagine delle cause fino a constatare che è lo stesso sistema che produce, insieme, un orizzonte ridotto di uomo e un insegnante adeguato a misura di quella riduzione. E’ il sistema educativo statale così strutturato – e quello paritario, nella misura in cui riproduca in modo pedissequo e culturalmente subalterno il paradigma statale – che sottoproduce insegnamento povero e apprendimento debole.

L’esaltazione retorica dell’insegnante-maestro, unita tuttavia alla vigorosa difesa del sistema educativo tradizionale – l’unica possibile riforma del quale sarebbe quella di restituirlo alla sua purezza originaria – suona come una campana fessa. E’ proprio il sistema nella sua purezza originaria che non funziona più, a causa della riduzione antropologica fondamentale. Il guaio è che le generazioni adulte stanno passando, in questi anni, dall’educazione come esercizio di volontà di potenza alla fuga dall’educazione; dall’onnipotenza dell’educare all’impotenza dell’educare. Per ripartire sono necessarie due operazioni intrecciate: prendere atto di quel dato antropologico originario e elaborare una nuova cultura dell’educazione e nuovi assetti istituzionali.

Senza la prima operazione, la seconda è pura verbigerazione pseudo-scientifica, destinata allo scacco. Senza la seconda, la prima si riduce a retorica, che finisce per dare copertura e conservare lo stato di cose presenti, contro ogni intenzione esplicita. Per il resto, si può solo ricordare che l’educare è un rischio, innanzitutto per l’adulto: non sai se l’altro aprirà, quando busserai alla sua porta; non sai che cosa troverai oltre la soglia; non sai fino a quando potrai essere ospitato. Perché “il cuore” dell’altro ha delle ragioni di cui nessun educatore si può impadronire. Pare che anche Dio si limiti a bussare. 

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