Il figlio di un’amica (lo chiameremo Luca) si è guadagnato un bell’esame di riparazione in italiano scritto. Alla fine di una prima liceo dello sport, scelto a suo tempo come un liceo meno pesante degli altri. La scuola secondaria di primo grado era stata affrontata con qualche difficoltà ma con il piacere della frequenza. Niente di che. Alunno “medio”, si potrebbe dire. Il rito di passaggio da un ordine di scuola a quello superiore per molti studenti è vissuto come una prova di iniziazione ad un impegno personale ed autonomo, prova che temporalmente accade prima della adeguata maturazione psicocognitiva.



Fin qui niente di strano. Come persona competente in materia vengo interpellata per individuare delle strategie per superare l’ostacolo dell’esame di settembre. E qui inizia il mio stupore che rasenta lo sconcerto. Chiedo quale programma di recupero ha indicato la scuola per colmare le lacune in lingua. Mi viene presentato un foglio A4 fotocopiato (quindi uguale per tutti i 6/7 studenti rinviati in italiano) in cui si elencano gli “oggetti” di esame: riassunto, grammatica, epica, come da programma svolto durante l’anno. Interrogato su quali argomenti siano stati affrontati nell’anno scolastico terminato, Luca manifesta profondo imbarazzo da balbuziente mentale, però, aggiunge prontamente, dovrà frequentare un corso di recupero promosso dalla scuola.



Mi tranquillizzo un poco: terminato il corso scoprirò come far esercitare Luca e su quali abilità (o competenze) puntare. E qui cade molta della mia pur solida fiducia nell’istituzione scolastica. Qualche sparuta nozione di grammatica, lettura di brani di epica pescati qua e là dal testo integrale e qualche riassunto. Riassunto? Esclamo io. E sì, perché la prova d’esame consisterà nella stesura di un riassunto. Ma “quanti” riassunti avete fatto durante l’anno? Bah, forse due! Mi faccio consegnare il materiale prodotto durante il corso di recupero e il mio cuore di linguista ha un sussulto. Come si possono definire quelle poche (poche!) righe che dovrebbero sintetizzare un racconto, un pezzo di antologia?



Mi viene spiegato che la consegna era quella di riassumere il senso del testo in x parole. Poche righe e molti errori: ortografici (e va beh), sintattici (i connettivi vengono usati secondo il criterio della roulette: per caso possono funzionare), di coesione e coerenza. Risultato. Il testo prodotto da Luca dimostra che lui non ha capito quello che ha letto in originale e che il vincolo di utilizzare solo x parole nello svolgere il compito ha istigato a tagliare a macchia di leopardo parti del testo, importanti o meno che siano. Ne ho la conferma sottoponendo il ragazzo ad una serrata raffica di domande degne di un interrogatorio ad un sospettato di un delitto. Ma in fondo gli esiti di quelle esercitazioni sono un delitto inconsapevole verso la lingua italiana. Ciò detto, non posso esimermi da qualche considerazione.

CLICCA QUI O SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO

Punto primo. Premesso che sono condivisibili le preoccupazioni economiche ed organizzative che accompagnano e determinano la strutturazione dei corsi di recupero, vogliamo essere onesti e riconoscere che, così impostati, detti corsi non raggiungono un’efficacia nella sollecitazione e nel riordino delle abilità (evidentemente deboli e confuse) degli studenti? Rischiano di essere una sorta di punizione simbolica che i ragazzi vivono come sottrazione di tempo alla spensieratezza e alle gioie estive. Se la scuola, come viene gridato da ogni angolo, deve diventare più seria, deve anche mettere in atto occasioni (in questo caso suppletive) di sviluppo di apprendimento che, attraverso la fatica, portino i ragazzi a fare un passo in più rispetto ad un traguardo minimo per vari motivi non raggiunto durante l’anno.

 

Seconda considerazione. Si parla ormai da tempo di “valutazione per l’apprendimento”. Ora, anche una valutazione negativa può e deve avere questo scopo. Certo, lo scopo non si raggiunge se la valutazione negativa attesta il basso livello raggiunto senza indicare quali sono i fattori che inchiodano al palo dell’insufficienza lo studente.

 

Terza considerazione. Ma l’educazione alla lingua italiana nella scuola a quali must si ispira? Le “Indicazioni” per i licei propongono delle traiettorie interessanti, ma rispecchiano la scuola reale? E’ un problema di obiettivi, ma anche di percorsi didattici. In buona sostanza. A scrivere si può imparare (e si deve), anche se si diventa dubbiosi su tale asserzione leggendo gli esiti della ricerca svolta dall’Accademia della Crusca sui materiali della prima prova dell’esame di maturità del 2008/2009. Nel terzo millennio non si può pensare che saper scrivere sia una dote “naturale”. Certo, conta anche un talento naturale, ma anche il talento naturale non coltivato appassisce. E, sorge la domanda: chi (e in quali luoghi) può aiutare i ragazzi ad imparare a scrivere? Solo a scuola? E a quali condizioni?

 

Ultima riflessione. Concordo pienamente con Luca Serianni (in un’intervista su queste pagine) che molto importante come potenziale educativo è il riassunto «che mette in gioco la comprensione di un testo dato, la sua corretta gerarchizzazione informativa, la capacità di dire l’essenziale in uno spazio predefinito oltre che di controllare tutti i livelli di scrittura».

 

CLICCA QUI O SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO

 

 

Ma tutte queste importanti e in parte difficili competenze vanno educate fin dalla prima infanzia e i bambini/ragazzi vanno accompagnati a prendere consapevolezza delle operazioni cognitive e delle strategie che devono mettere in atto. Senza peraltro dimenticare la competenza ideativa e quella argomentativa che nel riassunto rimangono più sullo sfondo, non per questo assenti. Tali competenze sono richieste ed esaltate in altri compiti linguistici. Questo è un discorso che porterebbe lontano.

Sotto il sole agostano si accende un ricordo giovanile del tempo in cui io e i miei coetanei ci divertivamo a cantare una canzone di Don Backy che testualmente urlava “Ancora una volta ho rimasto solo”. Era una canzonetta, ma piaceva anche perché trasgrediva una regola linguistica.

 

Era trasgressiva come linguisticamente avremmo voluto esserlo noi che conoscevamo ed usavamo le regole della lingua, non perché formalisti, ma perché ci piaceva molto essere efficaci nella comunicazione e capivamo che la lingua anche nella sua forma era per tale scopo uno straordinario strumento. Oggi i ragazzi vogliono realmente comunicare e pertanto padroneggiare i meccanismi linguistici?