Lo scorso 29 luglio il Senato ha dato il suo via libera al ddl del governo di riforma dell’università, che ora passa alla Camera. In attesa della ripresa dell’esame del provvedimento, il sussidiario ne ha parlato con Enrico Decleva, rettore dell’Università degli Studi di Milano. Ricercatori, autonomia dell’università, finanziamenti, valutazione sono i punti chiave di una riforma che fa discutere. «È indispensabile – dice Decleva – garantire una quota adeguata, e funzionale alle esigenze, di posti di professore associato sui quali chiamare una parte consistente degli attuali ricercatori a tempo indeterminato che conseguano l’abilitazione scientifica».



Professor Decleva, secondo lei la riforma saprà favorire quel ricambio, quantitativo e qualitativo, della classe docente?

Sulla carta sicuramente sì. Uno dei punti caratterizzanti del provvedimento riguarda la possibilità per il futuro ricercatore a tempo determinato con tenure track di venire chiamato come professore associato una volta ottenuta l’abilitazione scientifica. Questo andrà a regime sei anni dopo l’entrata in vigore delle legge. Nel frattempo è indispensabile garantire una quota adeguata, e funzionale alle esigenze, di posti di professore associato sui quali chiamare una parte consistente degli attuali ricercatori a tempo indeterminato che conseguano l’abilitazione scientifica. Un emendamento in questa direzione è stato presentato, ma non è passato, in Senato. È necessario che vi provveda ora la Camera: anche perché mi risulta che il Miur sia favorevole.



E cosa dice della riforma delle facoltà?

La configurazione delle strutture intermedie che prenderanno il posto delle facoltà è un secondo nodo sul quale è bene che il Parlamento ritorni, sciogliendolo positivamente. La versione uscita dal Senato è troppo restrittiva e vincolante. Ferma restando la presenza dei direttori di dipartimento e di una rappresentanza studentesca, è indispensabile lasciare all’autonomia di ciascun ateneo la definizione delle ulteriori componenti.

Gli atenei devono godere di maggiore o minore autonomia nella gestione delle proprie risorse umane e finanziarie per perseguire le proprie strategie? Come la riforma affronta la questione, secondo lei?



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Non credo che sia un problema semplicemente quantitativo. O, per dire meglio, occorre più autonomia, ma anche più responsabilità, in un contesto programmatorio e di risorse definito su un arco pluriennale. La legge individua da questo punto di vista linee di intervento interessanti, che potranno però dare esiti effettivamente positivi solo in un contesto nel quale non ci si limiti a togliere ad alcuni per dare ad altri, ma si prevedano risorse effettivamente aggiuntive legate ai diversi fabbisogni e ai relativi risultati.

 

È vero che il problema della sopravvivenza degli atenei è legato all’ammontare di risorse, o ci sono margini per migliorare l’efficienza delle attività? Nell’uno e nell’altro caso, come la riforma sta affrontando il problema?

 

La contrazione subita dai finanziamenti per il sistema è stata in questi anni molto consistente. Ci sono interi settori di intervento, come quello dell’edilizia, praticamente azzerati. Il taglio sul diritto allo studio sarà, quest’anno, drammatico. In proporzione, gli eventuali recuperi ancora possibili qua e là sono sostanzialmente irrisori. Il che non significa che non vadano fatti. In ogni caso tutto il processo legislativo al quale facciamo riferimento è nato sul presupposto di uno stretto raccordo tra riforme e risorse. Con lo sviluppo della valutazione come garante della “virtuosità” del processo.

 

Un altro nodo è quello della valutazione: meglio un sistema di premi e sanzioni, o un modello che ricerchi le peculiarità di ciascun ateneo, gruppo di ricerca e docente per favorirne lo sviluppo?

 

Mi auguro che si voglia andare e che si vada nella seconda direzione. Fermo restando che la peculiarità che si rivendica deve avere un riscontro in termini di risultati e quindi di risorse per proseguire nella strada intrapresa.

 

Legata a quest’ultima domanda, professore. Quale idea di università deve stare alla base di un modello di valutazione, che la riforma traccia come parola chiave per il cambiamento?

 

Una università che continui ad essere, e sia ancor più, comunità di studio, di formazione, di esperienze umane, luogo di richiamo delle migliori energie intellettuali in una logica di confronto libero ed aperto nella quale risultino più forti e più sentite le responsabilità istituzionali e meno incidenti, per contro, le personalizzazioni e le spinte individualistiche, e tendenzialmente anarchiche, che hanno a lungo caratterizzato il funzionamento del sistema.