Probabilmente è sfuggito ad altri, come era sfuggito a me, l’articolo sulla situazione della scuola italiana apparso il 3 settembre su il Fatto Quotidiano, a firma dell’economista Michele Boldrin, dal titolo «Forse c’è un’altra strada». Conviene dunque segnalarlo, poiché si tratta di un articolo di grande interesse. Essendo apparso, inoltre, su una testata non propriamente schierata a favore della libertà educativa, lascia intendere ancor più di quanto dice.



Però, prima di entrare nel merito dei contenuti del pezzo, vale la pena dire chi è l’autore, perché così si potrà capire meglio l’importanza delle sue affermazioni. Michele Boldrin è nato a Padova e si è laureato in Economia e Commercio nel luglio 1982 all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Attualmente è docente alla Washington University di St. Louis, ma è stato docente anche nelle università del Minnesota, Carlos III di Madrid, Northwestern, UCLA e Chicago. È Fellow della Econometric Society e Research Fellow del CEPR. È stato editor o editor associato di varie riviste internazionali, fra cui Econometrica, Review of Economic Dynamics e la International Economic Review. I suoi studi si occupano di teoria della crescita economica, progresso tecnologico e macroeconomia più in generale. È autore di numerosi articoli scientifici pubblicati su tutte le maggiori riviste scientifiche internazionali. Recentemente, è salito alla ribalta dei mass media italiani per aver messo alla berlina, durante una nota trasmissione televisiva di approfondimento politico e sociale, l’ex ministro Castelli.



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Fortemente critico nei confronti dell’intera classe politica italiana, ancora amareggiato per essere stato «costretto» 27 anni fa ad emigrare negli Usa per potersi dedicare alla ricerca, Boldrin è approdato sul quotidiano di Travaglio con un articolo sull’avvio di anno scolastico nel nostro paese che non risparmia critiche a nessuno: all’attuale come ai passati governi, ai sindacati e ai precari che inscenano melodrammi, al ministro Gelmini e al ministro Tremonti, e persino ai mass-media: «La nuova sceneggiata è servita. Da un lato i precari della scuola che fanno lo sciopero della fame e un sindacato che vuole mantenere solo lo status quo. Dall’altra un ministro che si vanta dei propri tagli senza capire (i suoi consiglieri non gliel’hanno evidentemente spiegato) che il problema è come è organizzata e gestita la scuola italiana. In mezzo i media, che anziché documentare le colpe dell’una e dell’altra parte (e la necessità di una svolta), alimentano la polemica. (….) L’ennesima apertura caotica dell’anno scolastico è il frutto di scelte miopi e accomodanti di questo governo e di molti che l’hanno preceduto. Oltre che di politiche sindacali improntate al più bieco corporativismo e alla massimizzazione della spesa, invece che alla sua efficienza e produttività».



Un’analisi lucida e spietata, che però lascia presto il posto a una proposta interessante e costruttiva, fatta di «ingredienti in ordine sparso». Per far funzionare la scuola italiana, dice Boldrin, occorrerebbe «decentralizzare per davvero le decisioni di assunzione e impiego del personale (…), trasformare ogni scuola in una cooperativa di insegnanti a cui lo Stato dà in concessione (a un prezzo che copra l’ammortamento) le strutture fisiche»; lasciare al soggetto gestore la facoltà di decidere «chi assumere (e a che condizioni), chi promuovere, premiare o licenziare» e di vendere i propri servizi ad un prezzo maggiore se si offre un servizio di alta qualità.

 

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E per gli alunni? «Buoni scuola uguali per tutti gli studenti, finanziati con le imposte e spendibili nella scuola di propria scelta». Insomma, sottolinea con forza Boldrin, «ciò che conta è il finanziamento pubblico dell’istruzione, fattore di progresso economico e uguaglianza sociale, non la sua gestione diretta. Che come l’esperienza dimostra, porta spesso a inefficienze e assurdità». Al Ministero resterebbe l’importante compito di indicare, con programmi «minimi e uniformi a livello nazionale» – arricchiti da «aggiunte volontarie locali» -, gli obiettivi formativi fondamentali e di valutare la qualità dell’insegnamento.

Una ricetta che è una vera rivoluzione e che finirebbe per liberare risorse a favore degli «insegnanti capaci e volenterosi», oltre che degli alunni e delle loro famiglie. Una rivoluzione che però non è una proposta totalmente nuova e mai esplorata nel nostro paese. Nel 1997 l’allora ministro della Funzione Pubblica, all’interno di una articolata legge per il decentramento amministrativo, introdusse il concetto di «autonomia scolastica»; la cosiddetta «legge Bassanini», di fatto, traduceva in norme la consapevolezza ormai diffusa (dati i malfunzionamenti noti a tutti) che era assolutamente necessario passare da un sistema rigidamente centralistico, ingessato e, dunque, inefficiente, ad uno più snello ed efficiente, centrato maggiormente sulla responsabilità dei diretti operatori. Da allora, mentre in alcuni ambiti sono stati fatti dei passi in questa direzione, nella scuola l’autonomia resta ancora largamente sulla carta, nonostante le dichiarazioni di principio e le concessioni di facciata.

 

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Il modello tratteggiato da Boldrin, dunque, è proprio quello dell’autonomia, portata magari alle estreme conseguenze, però del tutto in linea con quanto già intuito anche dalla legislazione italiana. Tra l’altro, quanti sono impegnati nella estenuante battaglia per la libertà di educazione, in molte occasioni (magari con toni, accenti, sfumature o proposte diverse) hanno delineato uno scenario simile e rimarcato l’urgenza di muoversi in questa direzione. Scuole libere, poi, che almeno in parte siano riconducibili alla proposta di Boldrin e funzionano anche bene, esistono già, ma sono ancora una esperienza marginale (o, meglio, marginalizzata) nel nostro sistema di istruzione.

Quello che è davvero nuovo, occorre dirlo, è che una testata come quella di Travaglio ospiti una simile proposta. Il nostro sistema scolastico, evidentemente, è arrivato «alla frutta», e quello che non era ancora apparso chiaro per adesione ideale lo sta diventando per calcolo economico o per resa di fronte alla realtà. Troppo lampante è ormai il fallimento del rigido modello centralistico importato centocinquant’anni fa dalla Francia napoleonica, rapidamente mummificatosi a causa di un’ostinata e miope sfiducia nelle capacità educative e nelle identità culturali presenti nella società civile.
 

Non ci resta che sperare che anche chi può e deve prendere decisioni in merito – il governo, il ministro, i politici… – prenda finalmente atto della realtà e chini il capo di fronte alle indicazioni che essa suggerisce. Diversamente, dovremo rassegnarci ad un inarrestabile declino e l’implosione del nostro sistema nazionale di istruzione sarà difficilmente evitabile.
 

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