«Dispersi. Il mondo della scuola, delle agenzie educative, della politica, li chiama così». È l’incipit dell’articolo di Avvenire dell’8 settembre dedicato agli “studenti fantasma”: quel 30% degli iscritti alla prima superiore che non arrivano al diploma. Seguono numeri, analisi e questo detta una certa impressione, siamo di fronte a un fatto grave: tante energie giovani si disperdono in mille rivoli accumunati solamente dalla difficile condizione di essere giovani che «Non lasciano tracce. Non trovano collocazione. Non hanno futuro».



Eppure… ciò che sembra trasparire nei dibattiti intorno questo grave fenomeno è più la preoccupazione di non essere al passo con la Strategia di Lisbona che altro. «Quando un ragazzo ruba una bicicletta – dice Lamy – che cosa importa alla società? La sorte della bicicletta o quella del ragazzo?» (G. Cesbron, Cani perduti senza collare, Bur). Sembra quasi che il tema sia quello del raggiungimento di un determinato standard numerico nel grado di istruzione del nostro paese e non, invece, quello della crescita della persona: crescita che si documenta nella scoperta della valore della propria vita realizzata attraverso un compito di costruzione (sia nello studio che nel lavoro).



Sempre su Avvenire, nello stesso giorno, c’è un ottimo editoriale di Alessandro D’Avenia che mostra quanto, in realtà, questi “fantasmi” siano l’esito della grande crisi del mondo adulto che da troppo tempo sta attraversando il nostro paese: «La crisi dei giovani è crisi dei maestri».

Da dove ripartire? Don Giorgio Pontiggia, grande educatore e per 20 anni rettore dell’Istituto Sacro Cuore di Milano, era solito dire che «l’educazione equivale, per l’uomo, alla generazione». Si può generare l’umano solo attraverso l’educazione. Educa chi si lascia educare, genera chi si lascia generare. Nell’ottobre del 1984, incontrando un gruppo di famiglie per chiarire il loro ruolo educativo, don Luigi Giussani fece questo straordinario esempio: “Per capire meglio cos’è questa cosa necessaria per educare, immaginiamo una mamma che la mattina entra in camera per svegliare il suo bambino. Supponete che sia un momento umanamente fortunato, che si fermi a due metri dal letto e guardi dormire quella creatura, che è uscita da lei, che prima non c’era e, quasi prescindendo dal fatto che è sua, pensasse: «Chissà che cosa l’aspetta nella vita, chissà che cosa incontrerà!…» e poi, ancora: «Ma questa creatura ha un destino, altrimenti sarebbe stato ingiusto, inutile farla nascere… perché farla nascere significa esporla alla possibilità dei più gravi dolori…». […]



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Io dico che la prima condizione – consapevole o implicita che sia – per poter educare una creatura umana è il senso del distacco, di rispetto, il senso di timore e tremore per il mistero che è dentro quella creatura lì, che è così tua e che non è tua. […] Questo distacco è come il sentimento di non poter esaurire il rapporto col proprio figlio stringendolo fra le proprie braccia, prendendolo per mano o ingiungendogli quello che, a noi, maturi, sembra giusto, più vero, adatto! È un reale distacco, ma non esiste nessuna unità col proprio figlio più profonda di quella vissuta dal padre e dalla madre che cercano di guidare la propria creatura avendo sempre davanti questa cosa tremenda e misteriosa che è il suo destino; avendo sempre davanti questo pensiero, che è un essere in rapporto con Qualcosa di molto più grande di me,a cui lo debbo accompagnare e a cui lui andrà usando, ora per ora, le cose e gli avvenimenti in cui si imbatterà. Perciò io lo debbo aiutare ad usare le cose, a fargli prendere la vita il più possibile in modo tale che il suo cammino, istante per istante, sia teso al suo destino; altrimenti sarebbe inutile e ingiusto l’averlo generato, perché allora sì, sarebbe inutile vivere!” (Luigi Giussani, Il rischio educativo come creazione di personalità e di storia, SEI).

 

Ecco, serve la percezione del Destino. Allora, forse, più che di dispersione, abbandono… occorrerebbe tornare a parlare di quel Destino, grande e infinito, che svetta sull’orizzonte di ogni nostra giornata. Quel Destino che, desiderato, ricercato, rende operoso (quindi carico di frutti benevoli) ogni cammino umano.