L’atteso Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti è stato firmato e con esso varato un progetto che, per fasi successive, si propone di modificare a fondo il profilo della professione docente in Italia. Il Regolamento, volenti o nolenti, segna un discrimine tra due modi di interpretarne la sostanza e anche gli effetti sull’organizzazione scolastica: occorre individuare gli spazi giusti per non mortificare le aspettative che immediatamente (e giustamente) si sono destate in tanti giovani insegnanti e neolaureati, ed eventualmente migliorare ancora, per quanto possibile, l’assetto che ne risulta.
Nello specifico, questo intervento normativo, figlio della “Commissione Israel” e degli aggiustamenti successivi, disegna i nuovi percorsi formativi per chi intende diventare insegnante e avvia una fase transitoria che consentirà a tutti coloro che sono laureati in materie attinenti l’insegnamento, e ne hanno i requisiti, di raggiungere l’abilitazione a certe condizioni (superamento delle prove d’ingresso, partecipazione al tirocinio formativo attivo, esame finale).
Per diventare insegnanti nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, prima c’era il corso di laurea in Scienze della formazione primaria articolato in quattro anni e diviso in due indirizzi: insegnante di scuola materna; insegnante di scuola elementare. Questo tipo di laurea è abilitante ed è condizione indispensabile ai fini dell’ammissione ai concorsi a posti di insegnamento nella scuola materna o elementare.
Per insegnare nella scuola secondaria (di I o II grado) occorreva, dopo la laurea triennale, frequentare un corso di laurea specialistica biennale (laurea magistrale), connessa ad una particolare classe di concorso/insegnamento (es. storia antica per accedere alla 37/A Filosofia e Storia) e poi era d’obbligo frequentare, previo esame di ammissione, le Scuole di specializzazione per l’insegnamento superiore (SSIS), articolate in indirizzi, di durata biennale e con esame finale abilitante.
Adesso, con il Regolamento appena approvato si istituisce – per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria – un corso di laurea magistrale quinquennale (senza indirizzi), comprensivo di tirocinio e titolo abilitante. A chi ha obiettato che cinque anni continuativi di università sembrano eccessivi per insegnare ai piccoli alunni, è stato risposto, con motivazioni non sempre soddisfacenti che, primo, si debbono uniformare i percorsi; secondo, che gli studi condotti sull’attuale laurea quadriennale portano a ritenere poco sensato, tenuto conto delle “specificità educative degli insegnanti”, un percorso articolato in un triennio e in un successivo biennio. A nostro giudizio, in questo campo si rischia forse un eccesso di specializzazione che non corrisponde del tutto alla fascia di età cui ci si rivolge.
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Per quanto concerne invece l’accesso al lavoro nella secondaria, si prospetta un 3+2+1, dove il biennio specialistico (+2) dovrebbe tenere conto sia delle discipline sia delle didattiche disciplinari, delle scienze pedagogiche e delle attività laboratoriali, mentre il +1 è un anno di tirocinio formativo attivo (TFA) che sostituisce le SSIS biennali. Il TFA è istituito presso l’università e si presenta come un anno di intensa collaborazione tra università e scuola, dato che agli insegnamenti pedagogici, didattici e laboratoriali in università si affiancano le 475 ore di tirocinio attivo e osservativo da svolgere presso le istituzioni scolastiche sotto la guida del docente tutor.
La differenza tra il prima e il dopo l’emanazione del Regolamento è contrassegnata da una precisa filosofia cui esso si ispira (o vorrebbe ispirarsi) che mira, da una parte, ad elevare le conoscenze disciplinari degli insegnanti, troppo penalizzate, come afferma la Relazione illustrativa del Regolamento, dall’invasione di forme di metodologismo astratto, per cui “il modo di insegnare la matematica (la storia, la geografia, ecc.) viene prima di conoscere alcunché di matematica (di storia, di geografia, ecc.)”; dall’altra, ad un superamento del “modello SSIS”, cristallizzato (dice sempre la Relazione illustrativa) in “strutture fisse e gruppi di persone che riassorbono tutta l’attività formativa e che finiscono con l’isolarsi e perdere un rapporto pieno sia con la realtà universitaria che con quella scolastica”.
Il ritorno alla realtà dopo l’ubriacatura strutturalista e cognitivista è da salutare senza dubbio con favore, così come il nesso tra la conoscenza dei contenuti, da parte del futuro docente, e la messa in pratica, con il tirocinio, della loro diretta comunicazione sul campo. Il TFA, se ben realizzato (qui ci sarà davvero da rimboccarsi le maniche tra università e scuola) potrà permettere ai giovani insegnanti di verificare le loro attitudini andando “a bottega” dai più anziani e carichi di esperienza. Forse si poteva osare qualcosa di più e fare di questo anno un vero praticantato riconosciuto con contratto di formazione-lavoro, ma lo spettro di un nuovo precariato ha disarmato i fautori di questa linea.
Ad ogni modo, se talvolta voltare pagina è necessario, sappiamo che il cambiamento tra un modo e l’altro di prepararsi ad insegnare si gioca tutto sulla personalità stessa dell’insegnante, sul rafforzamento della sua vocazione a comunicare sé stesso attraverso ciò che insegna, a non presumere che insegnare sia uguale ad apprendere. Si dovrà fare tesoro, pertanto, dell’esperienza criticamente approfondita di chi nella scuola attiva già da anni ha messo le mani, ed anche i gomiti. L’alternativa all’insegnante metodologo o parcellizzato è la persona convinta della propria scelta vocazionale, che non è separata dalla propria soggettività culturale e che si assume la responsabilità a tutto campo del proprio insegnamento e delle condizioni nelle quali lo esercita.
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Se, come sembra, la fase transitoria con il solo TFA si attiverà dal prossimo gennaio (ne accenna la Relazione illustrativa) per tutti gli aventi diritto e con attenzione anche ai non abilitati in servizio, si aprirà a breve un’interessante, quanto fondamentale, fase di verifica di tutto ciò che finora è stato elaborato sulla carta.
Ma non basta: il Regolamento implica necessariamente la definizione di un nuovo sistema di assunzione e reclutamento degli insegnanti. Non bisogna dimenticare che le attuali graduatorie a scorrimento verso il posto di lavoro nella scuola sono chiuse, in via di lento esaurimento, non implementabili con i prossimi nuovi abilitati. Si tratta allora di comprendere quale meccanismo di chiamata può essere compatibile con la figura di docente appena abbozzata: il docente abilitato dovrà poter accedere a varie forme di assunzione perché varie sono le possibili risposte professionali alla domanda di educazione e formazione. È in questa prospettiva, ad ogni modo, che si deciderà dell’efficacia del Regolamento che dopo i primi vagiti attende di poter camminare su una strada ampia e ben strutturata.