Mentre scrivo, nel più totale e colpevole disinteresse da parte del Governo, dell’opposizione e dei mass-media, molte università si apprestano a rimandare l’inizio dell’anno accademico a causa della protesta dei ricercatori, che ha lasciato decine di migliaia di corsi senza docente, come ho spiegato nel mio precedente articolo sul sussidiario. Purtroppo però questo non è l’unico problema che sta rischiando di affossare definitivamente l’università italiana.



Il secondo per gravità è quello del reclutamento dei docenti, che è anche l’unico rispetto a cui il ddl Gelmini fa un importante passo avanti, istituendo il concorso unico di abilitazione nazionale. Ciò però rischia di essere vanificato dalle norme eccessivamente minuziose e spesso irragionevoli sul turn-over, che tra l’altro prevedono che si possa assumere un nuovo docente per ogni due che vanno in pensione, facendo così “dimagrire” maggiormente non le università che hanno più docenti inutili, ma quelle che hanno più docenti anziani. Degli altri problemi che il ddl non risolve o addirittura aggrava elenco solo i principali.



1. Da tempo le Università che hanno un alto numero di studenti fuoricorso vengono penalizzate economicamente, in base al presupposto implicito che ciò sia “ovviamente” colpa dei docenti, favorendo così il lassisimo.

2. Una norma (fin qui per fortuna sostanzialmente disattesa) fissa il numero massimo di pagine da studiare per ogni corso in base ad un calcolo astratto che se venisse fatto valere impedirebbe in moltissimi casi l’assegnazione di un carico di lavoro adeguato.

3. Da un anno è possibile assegnare i seminari (perfino quelli gratuiti) a persone esterne all’Università solo se laureate e solo tramite bando pubblico. A parte l’aggravio burocratico, così non si possono più invitare docenti di conservatorio, tecnici specializzati, alcuni manager, molti personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport, molti artisti e giornalisti, ecc., e, al limite, neanche un eventuale Premio Nobel non laureato. Inoltre si perde la possibilità di invitare molte personalità di prestigio che pur avendo la laurea non hanno (legittimamente) nessuna voglia di passare per la trafila del bando.



4. Il problema dei docenti fannulloni (che esiste) sia nella riforma Moratti che nel ddl Gelmini viene affrontato non permettendo alle Università di licenziarli, bensì aumentando il numero di ore di presenza richieste: cioè, in perfetto stile “all’italiana”, inasprendo le norme anziché assicurandosi che vengano rispettate, e, quel che è peggio, costringendo i docenti ad inventarsi corsi inutili e per cui non sono qualificati solo per raggiungere il numero minimo di ore di insegnamento.

5. C’è un atteggiamento schizofrenico verso la ricerca, che da un lato è sempre più penalizzata economicamente, ma dall’altro diventa il criterio pressoché esclusivo di valutazione delle Università (per giunta nella sua versione più discutibile, quello del numero di pubblicazioni, che favorisce la quantità a scapito della qualità), sottovalutando colpevolmente la didattica.

6. Gli aumenti di stipendio restano legati all’anzianità e non al merito.

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Si noti che nessuno di questi problemi ha a che fare con la (presunta) mancanza di soldi. La loro vera causa sta infatti nello strano sistema esistente in Italia, per cui in teoria c’è l’autonomia, ma poi il Ministero impone una tale quantità di regole e criteri che questa risulta in pratica quasi completamente svuotata. La cosa strana è che tutti, sia i favorevoli che i contrari, dicono che questa riforma è ispirata a una logica “manageriale”, quando invece è esattamente il contrario. E non cambia le cose il previsto inserimento negli organi direttivi delle università di un 40% di personalità provenienti dal mondo delle imprese (peraltro nominati non si sa bene ancora da chi). Quella di manager infatti non è un’essenza metafisica, ma una funzione: un manager inserito in un contesto che non funziona secondo criteri manageriali semplicemente non è più un manager, e rischia solo di far danni. Contrariamente a quanto previsto dal ddl Gelmini, le industrie scelgono i loro manager liberamente e non in base a criteri ministeriali; fissano loro degli obiettivi ma non il modo in cui devono raggiungerli; li premiano (o li puniscono) in base ai risultati e non all’anzianità; e vengono a loro volta premiate (o punite) dai propri clienti e non dal Ministero. Questo è, dal più al meno, anche il sistema che vige nelle università veramente autonome, cioè in quelle anglosassoni, che secondo me dovrebbero costituire il nostro modello.

 

Ma se questo non si può o non si vuole fare, piuttosto che continuare a tenerci questo sistema ibrido, che finisce inevitabilmente per prendere il peggio degli altri due, allora sarebbe quasi meglio tornare ad uno statalismo integrale. Meglio che sia il Ministro a intervenire direttamente per dire “questa università può assumere e quella no”, “questo corso di laurea non ha senso e va chiuso, mentre là ce ne vuole un altro”, “questa Facoltà può fare determinate cose e quest’altra no”, ecc. Perché è comunque meglio che ci sia un essere umano in carne ed ossa che sceglie col proprio cervello e poi si assume la responsabilità delle scelte compiute, piuttosto che, come oggi, demandare tutto a calcoli basati su algoritmi astratti, che non rispettano mai la specificità delle situazioni e soprattutto permettono a tutti di non prendersi mai la responsabilità di nulla.