Al suono della campanella non tutti entreranno a scuola quest’anno. Stiamo parlando proprio dei figli di noi baby boomers: la cosiddetta Generazione Y, i nati dal 1979 al 1994. Young, educated and unemployed è il profilo degli appartenenti a quella che Business Week in un articolo di ottobre scorso aveva ribattezzato “The Lost Generation”. Ma in questo contesto di ragazzi sperduti sono i Neet a destare la massima preoccupazione: i “Not in Employment, Education and Training”, vale a dire giovani che non fanno nulla, tranne passare il tempo e forse divertirsi.



I dati 2009 del Bureau of Labor Statistics hanno evidenziato come in America il 23 percento dei soggetti nella fascia d’età fra i 18 e i 29 anni non solo si trova in uno stato di disoccupazione, ma non sta neanche cercando attivamente un lavoro. Il rapporto Istat 2010 ha contribuito a portare alla ribalta anche la situazione nostrana, con un dato tristemente simile a quello Usa: in Italia parliamo di una percentuale pari al 21,2 percento.



Vale a dire che sul nostro territorio un giovane su cinque tra i 15 e i 29 anni vive in un limbo dal cui orizzonte è espunto il lemma lavoro. La situazione è in drammatica crescita; rispetto al 2008 infatti questi né-lavoratori-né-studenti sono aumentati del 13 percento. Giovani totalmente al di fuori del cosiddetto circuito formazione-lavoro, comparse che si aggirano nel film della dispersione professionale, figliastra della dispersione scolastica.

Questo il dato puramente descrittivo di giovanissimi che non stanno preparando adeguatamente il loro futuro e di giovani che non stanno incrementano le competenze per rendersi più attraenti sul mercato, né stanno provando a spendersi per ciò che hanno già acquisito. Come adulti ci sorgono delle domande, a volte scandalizzate. Quale il destino possibile per i giovani Neet? Come si guadagneranno da vivere? Che prospettiva di realizzazione personale e di soddisfazione professionale si delinea per loro negli anni a venire? Chi ci pagherà la pensione? Ma non è tanto o solo il loro futuro che ci preoccupa, quanto piuttosto il loro presente. Coi dati Istat 2010 torna alla ribalta la cosiddetta emergenza educativa, che sarebbe un errore di riduzione tradurre con emergenza scolastica.



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 Ci sono troppi giovani uomini e giovani donne che hanno smesso di lavorare tout court, perché anche lo studio e la formazione devono essere considerati a pieno titolo lavoro, mossa del soggetto che liberamente investe pensiero e atti per trasformare la realtà che ha sottomano, a sua disposizione. Inoltre uscire non dal circuito, ma dalla pensabilità del lavoro, ossia di sé all’opera, significa uscire dalla pensabilità stessa dei rapporti. L’amore è infatti un lavoro che richiede la partecipazione attiva alle vicende proprie e dei propri amici e compagni. Risulta oggettivamente più difficile per un giovane amare qualcuno o qualcosa se per scelta non sta studiando né lavorando, perché si insinua lentamente come un veleno tossico l’idea che non serva investire le proprie risorse. Quindi giovani, educati, disoccupati e soli.

L’animo rischia allora di venire invaso da due diverse possibili forme di rinuncia: il fatalismo o il cinismo. “Accadrà quel che deve accadere” oppure “non vale la pena niente perché tanto vanno avanti solo i raccomandati” sono le frasi della cattiva banalità che possiamo ascoltare la mattina sugli autobus o negli interventi nei programmi radiofonici. In entrambe le posizioni, vittima di un destino stupido e inconoscibile o di un mondo corrotto, il soggetto non trova più le ragioni e quindi l’energia per quel passo personale che potrebbe permettergli di confutare quelle stesse tesi.

 

Abbiamo allora una responsabilità come adulti. Non è il dovere moralistico a diventare esempio o modello di impegno – sempre angosciante e logorante per la chiara inadeguatezza rispetto al compito – quanto la sincera e quasi inconsapevole testimonianza dell’amore alla realtà col nostro lavoro quotidiano. Sarà per tutti la possibilità di ribaltare la prospettiva: non occorre amare prima astrattamente qualcosa per potersi impegnare, è dall’impegno personale con la realtà che sorge la possibilità dell’amore.

 

Sia che i giovani siano preda della sfiducia figlia della difficile situazione (post)crisi, alibi o meno che sia, sia che si trovino in una maledetta “confort zone” che abbiamo creato per loro nell’illusione di proteggerli dai mali del mondo, è difficile che si schioderanno spontaneamente. Occorre che qualcuno dia il la, fornisca un prestito iniziale di energia che permetta il loro passo di cercare e riconoscere le occasioni che prima o poi incontreranno. Non possiamo essere conniventi col loro immobilismo, non possiamo rassegnarci a che restino davvero una Lost Generation. Diamogli una mossa.

 

 

 

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