La scuola riprende il suo cammino e lo fa a tentoni, alla ricerca affannosa di un punto di forza che renda affascinante l’avventura del nuovo anno. E più si cerca nella scuola il punto da cui ripartire più sono i problemi a scoppiare, rendendo faticoso e impervio l’avvio.

E’ un anno che comincia con 20mila precari che rischiano di non avere il posto di lavoro, è un anno che inizia con insegnanti di ruolo sballottati da una parte e dall’altra, è un anno che inizia con una incertezza di fondo su una nuova didattica, quella della riforma, da cui si aspetta ciò che non darà, è così l’inizio che si prospetta dal di dentro della scuola, di fatto un non-inizio, un intrico di problemi che paralizza i meglio intenzionati o che si disperde nel lamento e nella protesta.



A questo panorama, che una volta avrebbe nutrito la virulenza famelica dell’ideologia, oggi si tenta di rispondere con l’analisi, come se identificando i vari tasselli di questa costruzione malferma che si chiama scuola si possa rimediare agli errori e si possano ridare le motivazioni per rifare una scuola finalmente nuova.



Sono analisi interessanti, che portano a vedere scorci reali del mondo della scuola, ma come tutte le analisi non sono sufficienti, manca loro qualcosa per poter ridare la forza di un nuovo inizio. Tra queste analisi val la pena di citare quelle di Alessandra Farkas e di Giovanni Belardelli.

Alessandra Farkas rilancia le tesi sui giovani di cui il New York Times si è fatto portavoce, riportando le argomentazioni dello psicologo Jeffrey Jensen Arnett. L’immagine che ne esce è quella di una generazione di ventenni che si trova bene dentro un tempo asettico, un lungo periodo in cui è possibile rimandare ogni decisione. Secondo il New York Times quello dei giovani d’oggi è un mondo diverso da quello del disimpegno ideale che si è affermato con il crollo delle ideologie, falsamente considerate ideali, è un mondo in cui si può vivere senza decidere nulla.



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E’ un passo ulteriore fatto nella direzione dell’"effetto Chernobyl" che negli anni ottanta don Luigi Giussani aveva identificato come la questione seria dei giovani. Una irradiazione che aveva lacerato l’umano e che rendeva i giovani incapaci di attaccarsi all’ideale che pur vedevano. Oggi il processo è andato avanti, si è creata una sorta di limbo in cui si può lasciarsi trascinare dalle cose senza prendere alcuna decisione.

 

Giovanni Belardelli porta all’attenzione della pubblica opinione la professione docente, ne mostra il colpevole discredito di cui è stata oggetto in questi anni e urge un recupero di quella dignità di cui ha diritto una professione fondamentale nella costruzione della società. Per Belardelli la questione è culturale, e non basterà “introdurre nella retribuzione degli insegnanti una percentuale legata al merito per restituire autorevolezza alla loro professione”, c’è bisogno di qualche cosa in più, ma anche qui l’analisi si indebolisce, si involve perdendosi nelle spire soffocanti dell’impegno e del servizio al bene degli altri.

 

Analisi interessanti queste e altre che tentano di definire la situazione del mondo della scuola, ma come non si può iniziare dai problemi – anche se guai a negarli! – così non è un’analisi giusta che dà la forza di un nuovo inizio.

 

Ricominciare è invece partire dall’unica cosa che non tradisce l’uomo, che non lo inganna, ricominciare è partire dal proprio cuore, dalle esigenze di vero, di buono e di bello e portarle a sfidare una scuola sempre più instabile, dove l’intenzione del nuovo si sovrappone al mantenimento del vecchio, generando un grave status di disorganicità.

 

Questo è il fascino di un autentico riinizio, avvertire che ciò che c’è in gioco quando si rientra tra le mura della scuola non è la scuola, ma è innanzitutto il mio "io", quel punto fragilissimo eppur consistente in cui si forgia la stima per l’umano e che è decisivo rispetto ad ogni mossa che un insegnante compie. Partire dalla stima per l’umano che ogni insegnante ha in sè, solo questo è un riinizio, solo questo porta nella scuola qualcosa di nuovo, un modo di insegnare che comunica qualcosa che c’entra con le proprie esigenze più vere e perciò di ogni studente.

 

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Tornano così di grande attualità queste affermazioni che fece don Luigi Giussani sull’insegnante: "se chi insegna fosse veramente cristiano, insegnerebbe con una precisione circa la verità di quel che dice, con un amore alla verità di quel che dice e, perciò, con più poesia (poesia nel senso generale del termine); con più amore a chi ha davanti, perciò con più pazienza, con più adattabilità, pronto a valorizzare osservazioni che venissero dagli scolari, pronto a rispondere a domande insistenti, anche troppo analitiche, che gli scolari facessero: insomma, una disponibilità alle esigenze della scolaresca che si chiama carità".

 

Che la scuola cambi o non cambi, questo è tutto da vedere, è una lotta che urge – ed è da fare senza esitazioni – ma che un insegnante possa riiniziare dal suo desiderio, questo nulla lo può impedire, dipende solo da lui!

 

Quando torna a scuola ogni insegnante deve decidere se partire dai problemi della scuola o dalle analisi sulla sua condizione, e allora non sarà un nuovo inizio ma la messa in scena di una commedia già vista. O se poggiare la ripresa su un pieno, la sua umanità, e allora sarà un nuovo inizio, la bellezza e il fascino di una nuova avventura, segnata dalla certezza di avere tanto da mettere in gioco davanti al bisogno di felicità che ogni studente porta in classe.