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Home » Educazione » Riforme scolastiche » SCUOLA/ La lezione? 60 minuti in cui tutto può accadere

  • Riforme scolastiche
  • Educazione

SCUOLA/ La lezione? 60 minuti in cui tutto può accadere

Daniela Notarbartolo
Pubblicato 21 Settembre 2010
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All’inizio della scuola si invoca novità. Ora però la svolta non è tanto la riforma, ma il “presente di incarnazione” (Daniel Pennac) dell’ora di lezione. Il commento di DANIELA NOTARBARTOLO

Sorprese settembrine. All’argomento “scuola” vengono riservate le prime pagine dei quotidiani. Incredibile visu! Una ricerca, con la sola parola-chiave “scuola”, nella rassegna stampa della Camera su alcune testate di spicco (Corriere, Repubblica, Stampa, Sole 24 ore, Foglio, Avvenire, Messaggero, Libero) tra il 2 e il 16 settembre dà come risultato una quarantina di articoli, di cui 4 in prima pagina. Ho avuto un sobbalzo quando il 13 settembre ho visto sul Corriere della Sera addirittura le pagine 2 e 3, a tutto campo, quelle delle notizie cruciali per la politica, presentare le novità dell’anno scolastico appena iniziato. Il 15 settembre trovo sul Foglio, in prima pagina un apprezzamento al ministro Gelmini per aver messo insieme, pragmaticamente, il meglio delle idee sulla scuola presenti nella società (un buon “compromesso scolastico”), valorizzando l’importante Quaderno bianco del governo precedente sul rapporto fra istruzione e economia, e per aver portato a casa una riforma sostanzialmente condivisa. A parte quindi le notizie di cronaca (per esempio il caso della scuola leghista di Adro), la scuola sembra un argomento “caldo”, complice anche la pubblicazione del rapporto 2010 dell’Ocse Education at a Glance e il contemporaneo varo del Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti.


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Paradossalmente una conferma di questa attenzione sono anche le proteste, i veti, lo stracciamento di vesti per i tagli, le accuse di restaurazione. Anche il problema dei precari, che grava su persone vere, che hanno famiglia e devono sbarcare il lunario, è stato creato colpevolmente, in passato, per disinteresse alle conseguenze e incapacità di fare della vera politica (quella che pensa alle generazioni future e non all’immediato), e va ora risolto.


SCUOLA/ “Latino alle medie, un orpello ideologico dove ci vorrebbe più italiano”


Ma il punto è che il mondo della scuola sente scricchiolare la sua statica autoreferenzialità. Sono 20 anni che si danno voti arrotondati al limite del “falso in atto pubblico”, e ora si è scoperto che per fare realisticamente il punto sulla nostra situazione sono necessarie le misurazioni comparabili. Sono 20 anni che si è badato più a parcheggiare una generazione che non ha bisogno di lavorare per vivere che a educarla, anche se questo è oggi platealmente insostenibile. Sono 20 anni che gli insegnanti entrano in ruolo con leggi e leggine, e ora si scopre che il fattore che più influisce sui risultati degli studenti è la qualità degli insegnamenti. Insomma, qualcuno ha detto ripetutamente “il re è nudo” (non c’è più l’ingenuo arrendersi all’evidenza, si lotta col coltello fra i denti per dire che a primavera gli alberi mettono le foglie). Del resto: il mondo adulto si è finalmente reso conto che i giovani senza né arte né parte di cui scrive Ballerini sono nelle nostre case, o sono figli di amici, fratelli di alunni, nipoti di colleghi, e cominciano ad essere una folla, spaesati, tristi, soli.


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Così il nuovo anno che è appena partito chiede a tutti almeno di prendere atto di un’inversione di tendenza. La svolta non è tanto la riforma, in primo luogo, ma quella nel modo di guardare finalmente alla realtà della scuola come a un argomento socialmente sensibile, che merita l’attenzione e lo sforzo della collettività, in cui i problemi non possono essere semplicemente passati di mano in mano da un governo all’altro e di fatto ignorati, o esorcizzati “gattopardescamente”. Non sono infatti in questione solo l’efficienza e l’efficacia del sistema.


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Paradossalmente proprio in questo momento furoreggia il romanzo di Alessandro D’Avenia Bianca come il latte, rossa come il sangue, che ha per contesto la vita scolastica di un ragazzo delle superiori, come a suo tempo fu straletto Diario di scuola di Daniel Pennac, ambientato in scuole della banlieue. Entrambi descrivono esperienze positive a scuola. A dare il polso della situazione non sono le campagne mediatiche, ma le evidenze: se tutti si immedesimano in certi libri è perché il desiderio della autenticità c’è, e forte; il bisogno disperato che fra le quattro mura scolastiche avvenga un’esperienza, che “succeda qualcosa” che rompa il cliché e faccia scattare la novità: e questo avviene attraverso il rapporto con la realtà dei compagni e dei prof. (fa capire D’Avenia), e il “presente di incarnazione” dell’ora di lezione (scriveva Pennac).


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È per questo che davanti all’articolo di Ballerini sulla “scatola nera” ho pensato che la più grande sfida per il prof. è fare di un non-luogo, dove si trovano per caso individui slegati e indifferenti, un luogo reale di relazioni stabili: ce ne sono talmente pochi! Un luogo è tale perché ha una continuità nel tempo, e in quel tempo avviene qualcosa, per ciascuno, ragazzi e adulti. Quello che avviene è apparentemente solo un rapporto con facce estranee che piano piano diventano familiari, con oggetti scolastici che piano piano aprono mondi, ma alla radice è una sfida con me stesso che da quelle facce e dagli oggetti scolastici mi difendo accanitamente, che cedo solo quando scopro un bene per me, un di più di umanità che mi raggiunge anche durante una lezione sul lessico (come si può ignorare la differenza fra la nostalgia e la malinconia?), o mentre ci scontriamo con una difficoltà e la superiamo.


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La vita di classe può essere molto sfidante. La lezione, i 60 minuti, le 33 settimane dell’anno scolastico, sono il tempo in cui questo può succedere, e forse la classe è ancora uno dei pochi luoghi della società di oggi dove si ha l’occasione di un passaggio dall’insignificanza al significato. Per me insegnante è l’incontro con le domande che gli alunni pongono (da quando non sono più in classe come mi manca lo sguardo disarmante, non ingannabile, di chi pone domande).

 

La riforma delle superiori certamente finalizza la scuola all’incremento della capacità di ciascuno di servirsi degli strumenti culturali indicati dai profili in uscita: “strumenti metodologici, logico-argomentativi, linguistici e comunicativi, culturali”, cioè la pertinenza degli approcci alle cose, la capacità di argomentare, dimostrare e costruire discorsi, la conquista della conoscenza attraverso la pratica e i modelli teorici. Per noi insegnanti la svolta di questa riforma (sembra una banalità!) è tenere presente la meta (le competenze in uscita che coincidono con il grado di investimento che i ragazzi fanno su di sé) durante il percorso (i 60 minuti replicati per l’anno scolastico), e fare il possibile perché questo incremento accada.

 

Ma questo – come proponeva l’associazione professionale Diesse già anni fa con un profetico documento sulle competenze (ripubblicato nel numero di luglio di “Libertà di Educazione” dal titolo Il volto nuovo della Secondaria) – avviene sempre all’interno di una condizione antropologica positiva, così ben descritta da Ballerini, dove si è chiamati personalmente a investire su se stessi e sul rapporto con gli altri, e questo rischio vale per gli studenti e per i professori. È il dinamismo delle relazioni personali, l’incontro con altro-da-sé, il fattore più educativo che esiste. Che tremore, quando a settembre mi presentavo per la prima volta ad una classe, con la speranza che questo avvenisse, cercando poi ogni barlume possibile nel corso della giornata. È una provocazione che all’inizio dell’anno ogni insegnante sente come il banco di prova vero, che lo chiamerà in causa come garante almeno del fatto che questo è possibile, e che lui ci crede totalmente.

 

 

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