Le notizie che arrivano dalla Spagna in questi mesi hanno aperto gli occhi di molti circa i rischi e gli squilibri dell’evoluzione economica, sociale, civile di quel paese negli ultimi anni, soprattutto nel periodo intercorso dallo spaventoso attentato alla stazione madrilena di Atocha del marzo 2004 e l’inizio dello zapaterismo. Prima della crisi economica e dell’esplosione della disoccupazione, l’esempio della Spagna era citato per denunciare presunte manchevolezze dell’evoluzione italiana, e poche voci hanno messo l’accento sui rischi di ciò che Gaetano Quagliarello ha giustamente identificato come il “costruttivismo sociale”, il principale leit-motiv postcomunista di Rodríguez Zapatero, che ha ispirato iniziative come la sostituzione di padre e madre con genitori A e B, la terrificante “Educazione alla cittadinanza” oppure la recente regolamentazione dell’aborto.



Eppure, ecco ripresentarsi sulle pagine dei giornali il “modello spagnolo”: stavolta si tratta del modello spagnolo a scuola, “lezioni supplementari ai più bravi”, ossia l’annuncio del ministero spagnolo dell’Educazione e della cultura sui “grandi dimenticati della scuola dell’obbligo, i primi della classe”. Forse ci si vuole proporre ancora una volta la presunta modernità e lucidità della società spagnola e dei politici che la guidano, ma occorre stare attenti perché lo sguardo acritico rende qualsiasi confronto inutile se non fuorviante.



Bisogna ricordare che la Spagna ha accolto quarant’anni fa il modello di pubblica istruzione della “comprehensive school”, introdotto dai laburisti britannici nel dopoguerra, ossia di una scuola dell’obbligo radicalmente ostile all’idea della selezione e di meritocrazia, e quindi della formazione culturale offerta secondo diversi livelli e tagli (elementare, classico, tecnico). Come ha fatto notare Alicia Delibes nel suo libro La gran estafa. La perdida del sentido común en la educación, il grande paradosso è che questa filosofia fu introdotta in Spagna con la Ley General de Educación del 1970, quando Franco era ancora saldamente al potere, mentre in Gran Bretagna già iniziava una decisa marcia indietro di fronte all’insuccesso evidente di questa filosofia di politica educativa.



Ma dietro questa scelta covava un rifiuto radicale della scuola moderna, figlia dell’idea di pubblica istruzione della Rivoluzione francese, la quale, come scrisse Condorcet, formava tutti i cittadini ma selezionava anche i migliori, ed entrambi gli scopi concorrevano a sostenere la libertà e l’uguaglianza. Negli anni finali della dittatura, questo rifiuto univa sia i cattolici più intransigenti, in chiave antiliberale, sia i “progressisti”, i settori vicini al comunismo e al socialismo. Quindi in Spagna da quarant’anni non esiste più né l’esame di quinta elementare né quello di terza media e la temibile maturità di un tempo – influenzata, come nel resto d’Europa, dal modello educativo tedesco – è stata sostituita da un blando esame.

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Da quindici anni la scuola primaria dura sei anni e la scuola dell’obbligo prevede altri quattro anni fino ai sedici anni. All’età corrispondente alla prima media italiana i bambini spagnoli ancora sono alle prese con manuali che sembrano fumetti, mentre nella Educazione Secondaria Obbligatoria (ESO, dai 12 ai 16 anni) quegli stessi bambini si ritrovano nelle aule un buon numero di quindicenni ripetenti insofferenti – mentre in Italia i contratti di apprendistato introdotti dai ministri Gelmini e Sacconi per facilitare la transizione al lavoro rappresentano un’innovazione efficace, pur rilanciando il contatto con la scuola dei giovani ragazzi.

 

In Spagna, inoltre, da quarant’anni il latino si studia per un solo anno e la conoscenza della lingua e della cultura greca è scomparsa dalla scuola, tranne che per una nicchia quasi inesistente di studenti. Da quindici anni il “bachillerato” (la scuola secondaria superiore) è ridotto a due anni in cui le scuole migliori tentano di portare gli studenti a livelli in matematica e in padronanza della lingua – la filosofia è un fantasma che non trova più una collocazione in tale scuola – non troppo lontani da quelli di un tempo, compito reso molto difficile dall’abbassamento generale del livello della ESO per “non lasciare nessuno indietro”.

 

D’altra parte, i regolamenti più recenti garantiscono a tutti il diritto al bachillerato, ossia il diritto ad avere un programma personalizzato per arrivare al titolo di studio che un tempo permetteva di essere chiamati Don o Doña … e, come è stato rilevato, la tendenza è quella di far diventare il primo anno all’università ultimo anno della scuola dell’obbligo, una scuola dell’obbligo che ha rinunciato a trasmettere un’eredità culturale e a formare le nuove generazione e assomiglia a qualcosa a mezza strada tra il sanatorio, l’oratorio laico e l’asilo.

 

A questa evoluzione il Partito Popolare non è stato capace di opporsi in alcun modo, tranne che per alcuni interventi dovuti alla spinta di Esperanza Aguirre – considerata tuttora nel partito una estremista antimoderna – nel suo periodo come ministro di Educazione. Siamo qui di fronte all’ennesimo esempio di incapacità della destra spagnola di offrire un’alternativa politico culturale conservatrice, invece di tirare avanti tra un triste pragmatismo e la soggezione culturale aggravata dalla continua paura di essere tacciati di fascismo. Poiché in Spagna vi è una gigantesca rete di scuole private paritarie sostenute dallo Stato, alcune tentano di resistere eroicamente a questo andazzo, ma molte scuole cattoliche si accodano al buonismo della “scuola che accoglie tutti” e insegnano senza fiatare l’Educazione per la cittadinanza in versione catechistica.

 

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Che lezione si può trarre allora in Italia dall’ultima novità sui corsi fuori orario per gli studenti eccellenti? Si tratta di un tentativo di porre riparo a una degenerazione gravissima, che nel tentativo di considerare la scuola un diritto e non anche un dovere e un’opportunità, e secondo un egualitarismo male inteso, sta portando gravi danni ben visibili ormai al sistema sociale ed economico spagnolo. Quindi, si può intanto pensare che in questo caso l’attaccamento alla tradizione della cultura italiana è stato provvidenziale per la tenuta della scuola, dei licei, degli istituti tecnici, tutti prodotti della grande stagione della fine dell’Ottocento. Si tratta dello stesso meccanismo per cui in Italia non ha avuto gravi conseguenze la febbre della matematica moderna, dell’“insiemistica” che tanti danni ha fatto in Francia, negli Stati Uniti o in Spagna.

 

Tuttavia, alcuni sintomi di questo costruttivismo sociale si ritrovano anche in Italia nella scuola primaria e sono alla base di molte difficoltà attuali. A partire dagli anni ’70 si è progressivamente smontata l’impostazione tradizionale della scuola elementare, per quanto riguarda i fini della scuola (non più la formazione attraverso la trasmissione di un’eredità culturale ma l’accoglienza di tutti, ognuno sempre di più un po’ malato e titolare di “bisogni speciali”), l’organizzazione (sostituzione del maestro o maestra come figura di riferimento culturale e morale con il “team” di “specialisti”) e i contenuti (non più programmi con contenuti ma “indicazioni” di “competenze”).

 

Il progetto spagnolo per gli “studenti brillanti” – anticipato nei corsi di aggiornamento per insegnanti di scuola dell’infanzia e di scuola primaria a Santander – rinvia proprio alla questione dei contenuti, e soprattutto ai contenuti di matematica, la materia che sfida più di qualsiasi altra la scuola buonista, poiché la civiltà tecnologica odierna richiede molte persone con formazione matematica. Proprio il buonismo pedagogico nemico della scuola “borghese”, e il suo ideale, la scuola-sanatorio, ha contribuito decisamente a schiacciare l’insegnamento della matematica sotto una coltre di pregiudizi: i bambini piccoli non possono capire niente di numeri, è inutile tormentare i bambini della scuola dell’infanzia con calcoli e problemi (quando invece vi è qualcosa di innato nell’interesse dei piccoli per la matematica ed è stupefacente come il mondo di oggi abbia aumentato le loro capacità aritmetiche); nella prima classe non si può andare oltre il numero 20 e bisogna colorare innumerevoli insiemi di meno di 20 oggetti; la moltiplicazione si fa solo alla fine della seconda e la divisione tutt’al più in terza (quando l’aritmetica elementare è una rete di concetti e la mente flessibile dei bambini è pronta a coglierla, e anche a capire l’aspetto astratto della matematica).

 

Invece di liberarsi definitivamente di questi pregiudizi la cui matrice ideologica è ormai evidente, e migliorare in tal modo l’insegnamento della matematica nelle nostre scuole, si preferisce individuare presunti disturbi dell’apprendimento, distinguendo tra bambini normali e bambini disturbati. Il “modello spagnolo” fa presagire una scuola-ambulatorio di bisogni speciali, tra bambini brillanti (i piccoli geni), bambini con disfunzioni dell’apprendimento e uno sparuto gruppo, chiamato a scomparire, di bambini “normali”. Un mostruoso laboratorio sociale!

 

 

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