Il problema dei licei classici dell’era Gelmini è che non ci sono problemi. Provate a chiedere: per molti (docenti, famiglie, presidi) l’idea è che il classico, per fortuna, é stato risparmiato dallo tsunami della riforma e che, sempre per fortuna, in quest’isola felice non ci sono stati grandi cambiamenti e, quindi, grandi danni.



In effetti, le novità sul piano delle discipline e del relativo quadro orario sono davvero modeste: l’inglese si studierà per tutti e cinque gli anni (ma in moltissimi licei si faceva già) così come le Scienze. Nell’arco dei cinque anni ci sarà poi qualche ora in più di Matematica, Fisica e Storia dell’Arte. Se ne vanno dal ginnasio, tra un compianto non generale, un’ora di Italiano e un’altra carpita a Storia e Geografia, che diventano una sola materia da tre ore a settimana. In definitiva, da lunedì a sabato, gli studenti del ginnasio (ma ormai le Indicazioni Nazionali parlano di “Primo biennio”) staranno a scuola per 27 ore, i loro compagni più grandi per 31: più o meno quanto ci si stava prima.



Non sono pochi, poi, a rallegrarsi del fatto che la riforma non solo non abbia apportato novità, ma abbia persino cancellato quelle che c’erano (senza peraltro prevedere una diversità di indirizzi, come invece accade negli altri percorsi liceali), e cioè le numerose sperimentazioni che avevano permesso, negli anni scorsi, ai singoli istituti di acquisire una propria fisionomia didattica e culturale.

Anche le già citate “Indicazioni Nazionali” sono state salutate come una conferma del già saputo, ivi incluso l’inevitabile incremento “quantitativo” dei programmi (il terrorismo e Tangentopoli in Storia, ad esempio): una miccia accesa che, se talvolta è stata utile a far esplodere un più serio lavoro di programmazione, assai spesso è stata spenta con l’acqua della recriminazione per i pur limitatissimi tagli orari della riforma: “Ma come, mi tolgono un’ora di Italiano e poi vogliono che spieghi Sereni, Caproni, Zanzotto, Morante e Meneghello?”.



Che poi, stando alle “Indicazioni”, lo studente di liceo, al termine del suo percorso, debba saper padroneggiare la lingua italiana ed essere “in grado di esprimersi, in forma scritta e orale, con chiarezza e proprietà, variando – a seconda dei diversi contesti e scopi – l’uso personale della lingua” e che, invece, nei fatti, quello stesso studente, di lì a qualche anno, non sia in grado di scrivere in modo ortograficamente e grammaticalmente corretto la sua tesi di laurea, come ha già acutamente notato qualche tempo fa Tiziana Pedrizzi, è cosa che sembra interessare pochi.

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A togliere ulteriori preoccupazioni è venuta, infine, la sostanziale conferma del numero di iscrizioni registrato dai classici per l’anno scolastico in corso: secondo i dati forniti dal servizio statistico del Miur (e sovvertendo le più pessimistiche previsioni) gli iscritti al Liceo classico, considerato anche il travaso al Liceo linguistico di quanti si iscrivevano ai corsi di bilinguismo del classico, sarebbero addirittura in leggero incremento.

 

Proprio quest’ultimo dato permette di trarre alcune conclusioni. I cambiamenti – soprattutto quelli difficoltosi e dolorosi, e per molti la riforma Gelmini è stata tale – costringono ad aguzzare l’ingegno e a mettersi in azione per ritrovare o ricostruire strade che si sono smarrite: ebbene, per i licei classici il nemico, tanto più forte quanto meno percepito, è l’immobilismo didattico e culturale.

 

Le iscrizioni al classico esprimono, infatti, una duplice esigenza delle famiglie: da un canto, quella di una robusta, ed approfondita istruzione, capace di porre lo studente nelle condizioni di affrontare gli studi universitari; dall’altro vi è la richiesta di un aiuto sostanziale e qualificato per poter affrontare il complessivo impegno educativo dei figli, nell’assolvere il quale le famiglie stesse si percepiscono, sempre più frequentemente, inadeguate.

Una scuola abbarbicata ad un culto della civiltà passata che sia però incapace di “aggredire” il presente è destinata a scomparire tra muffe e ragnatele.

 

(Primo di due articoli)