L’intervento di Luisa Ribolzi sulla questione del precariato suggerisce alcune considerazioni, a partire da quella che dovrebbe essere scontata, ma sembra che non lo sia, visto che il Ministro Gelmini è solita affermare che intende eliminare per sempre questa piaga dalla scuola. La considerazione è la seguente: il precariato nella scuola non è facilmente eliminabile, almeno fino a quando l’attività dell’insegnare non sarà organizzata in modi diversi da quelli oggi praticati. E sappiamo che cambiamenti di questa portata non sono alle viste, nemmeno nei sogni delle anime belle. Eliminabili sono soltanto gli eccessi patologici del fenomeno.
Il precariato, come condizione del lavoratore che esercita la sua attività senza garanzie di continuità e stabilità, è una necessità imposta dal particolare tipo di lavoro svolto nella scuola, che richiede di essere attentamente programmato, anche negli spazi affidati alla libera scelta da parte dell’alunno, e persino nell’inatteso e nell’imprevisto, che la perizia del docente accoglie con lo stesso piacere con cui il cercatore d’oro raccoglie la pepita nascosta tra i ciottoli sul greto del fiume.
L’azione dell’insegnare non può essere interrotta senza danno per l’allievo, essa ha nella continuità un requisito strutturale, che, paradossalmente, è anche condizione indispensabile per gestire le discontinuità imposte dalla complessa dinamica del rapporto con gli allievi. Quando l’insegnante titolare è assente, occorre qualcuno che lo sostituisca per assicurare, per quanto possibile, la continuità del lavoro didattico. Occorre il supplente e con lui ha inizio il precariato. Una banca o la posta potrebbero farne a meno, la scuola no.
Quasi tutti coloro che hanno vissuto la propria vicenda lavorativa dentro la scuola sono stati, inizialmente, precari, e grazie a questa condizione c’è chi ha scoperto di essere portato all’insegnamento e chi si è accorto di essere inadatto ed ha cambiato strada. Abbiamo vissuto questa condizione nell’ansia e nell’attesa dell’immissione in ruolo, ma senza drammi, e magari nella speranza di superare il concorso prossimo venturo. Perché un tempo i concorsi si facevano, magari con commissioni non sempre a livelli di eccellenza, e con programmi di taglio più culturale che professionale, ma qualcuno li bandiva, c’era chi non li superava, e ciò suggeriva l’idea che quella dell’insegnamento non era l’unica via praticabile per un diplomato o laureato in cerca di un’occupazione.
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Ad un certo punto, qualcuno prese a dire che i concorsi erano una lotteria, e i governanti, invece di rivederne i meccanismi, magari cambiando le norme sul reclutamento, cominciarono a diradarli, fino quasi ad abolirli. Il resto è storia e cronaca, e le analisi del Censis, ricordate da Luisa Ribolzi, impietosamente ce lo ricordano.
Insieme alle analisi, ora volano le accuse, che vedono imputati i governanti, i sindacati, la scuola, ed in essa i docenti. Dei governanti si è già detto: posti dinnanzi al decremento demografico e alla disoccupazione intellettuale che cercava sfogo e spazi dentro una scuola sempre meno accogliente, non hanno saputo apprestare idonei interventi a rimedio. I sindacati, da che mondo è mondo, fanno gli interessi dei lavoratori e non sempre li conciliano con quelli generali.
Nell’elenco dei colpevoli compare anche la scuola, ed in essa e per essa gli insegnanti. Esiste al riguardo una robusta corrente di pensiero, chiamiamola così, che formula l’accusa secondo cui lo sviluppo del sistema scolastico ha mirato a creare posti di lavoro per i docenti più che a migliorare la qualità dell’insegnamento. E prosegue affermando che le innovazioni introdotte negli ultimi decenni, tra cui la scuola a tempo pieno e l’organizzazione modulare, non sono servite a migliorare la qualità dell’insegnamento, ma solo ad aumentare i posti di lavoro.
E’ facile constatare che è vera la seconda affermazione e opinabile e azzardata la prima. E che, senza adeguate preventive verifiche, è stata dichiarata l’insignificanza di alcune importanti innovazioni, dopo di che si è deciso di abolirle, col dichiarato intento di recuperare i tratti della perduta qualità dal sapore antico. Ci sarebbe da una parte chi parla di qualità, ma produce soltanto occupazione, e c’è dall’altra chi, sempre parlando di qualità, produce disoccupazione e incrementa le schiere dei precari.