L’elenco degli stakeholder coinvolti dall’inizio di ogni nuovo anno scolastico è molto lungo: il ministro dell’Istruzione, l’Amministrazione scolastica centrale e periferica, i partiti, i sindacati, l’università, gli intellettuali e gli opinionisti, gli Enti locali, le Regioni, gli insegnanti, le famiglie, i ragazzi… Ciascuno di questi soggetti ha cose da dire e da fare, in base ai propri interessi e alle proprie culture. Ma non pesano tutti allo stesso modo. Sono le famiglie e i loro figli il centro di gravità del sistema educativo. Non lo sono gli insegnanti, non l’Amministrazione, non la politica.



Dire famiglie e dire ragazzi è (quasi!) la stessa cosa, benché sia evidente che nello sviluppo da 3 a 19 anni il legame tra questi due soggetti evolve profondamente, soprattutto a partire dai 12/13 anni. Che significa mettere al centro di ogni azione politica, amministrativa, sindacale, pedagogica, didattica l’interesse delle famiglie-ragazzi? Esige che tutti i cerchi concentrici che stanno intorno al nucleo del sistema educativo siano commisurati alle necessità e alle domande delle famiglie-ragazzi. Il nucleo atomico di quel nucleo è la conoscenza del mondo passato e presente, la trasmissione dell’eredità intellettuale e culturale delle generazioni precedenti. Nella conoscenza, nel Logos, si realizza l’essenza umana e perciò la storia umana: una conoscenza connessa alla rete di significato della propria esistenza, degli studi ulteriori e delle conoscenze tecnico-professionali e perciò conoscenza utilizzata per la vita. È questa del resto la definizione di competenza.



Attraverso quali passi? Il primo è quello di conoscere i ragazzi. Oggi è reso più difficile di ieri, per tutti, genitori compresi. La cosiddetta età evolutiva è sempre stata gioia e tormento delle generazioni adulte. Ma nelle grandi epoche di travaglio e di transizione verso estuari ignoti – qual è la nostra – questo compito è reso più difficile: i nostri figli sono sottoposti alla pressione di forze potenti dell’economia, della società, della cultura che li fanno assomigliare sempre meno ai figli che eravamo noi, per tutte le ragioni che questo giornale ha più volte sondato.



Perciò, quando i ragazzi si presentano in classe appaiono e sono sempre di più per la scuola e per gli insegnanti una “scatola nera”. Spesso, salendo lungo la scala degli anni, lo diventano anche per i loro genitori. Decifrarne i segnali è operazione complessa, ma indispensabile, alla quale debbono fin dall’inizio partecipare i genitori, gli insegnanti e ogni altro soggetto che abbia a che fare con i nostri figli. Occorre accumulare pazientemente ogni frammento di conoscenza, riconnettere delicatamente ogni filo, trovare per ciascuna tessera del puzzle l’incastro appropriato. Senza questa conoscenza sapiente, il ragazzo non è – e non si sente – “ri-conosciuto”.

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Ora, si deve constatare che l’apparato educativo statale, che abbiamo ereditato dall’800 senza mutamenti significativi, e gran parte di quello paritario non sono in grado di compiere questa elementare operazione-conoscenza. Sono ingenti le risorse di volenterosità che ciascuna scuola e ciascun insegnante generalmente impiegano a questo fine, ma l’assetto istituzionale, amministrativo, ordinamentale non prevede simile azione originaria, non è attrezzato, non è un suo problema. Per questo apparato Francesca, Giovanni, Alessia… non esistono; esiste il ragazzo medio di 11 anni o di 15 anni: una specie che non si dà in natura! Il tutor e il portfolio, introdotti dalla Moratti, sono stati bloccati con pretesti vari dal ministro Fioroni, sotto pressione della sinistra e dei sindacati. Perciò sono venuti meno due istituti che potevano fungere da strumenti di accumulo e gestione delle conoscenze necessarie. Senza conoscenza diretta e documentata di Francesca non è possibile costruire con la sua famiglia e con lei nessun itinerario di istruzione-formazione-educazione, non è possibile personalizzare il suo percorso né verificarlo né certificarlo. In assenza di quella conoscenza personale, l’universo dei ragazzi diventa altro rispetto a quello dell’istituzione scolastica. Oggi le distanze stanno diventando marziane.

 

Il secondo passo consiste nel tagliare l’abito degli ordinamenti sulla misura di ciascun ragazzo “ben conosciuto”. Il che implica un mutamento profondo della professionalità dei docenti e dell’organizzazione del lavoro, della distribuzione per classi – ormai divenute obsolete – del numero di materie ecc… Questo giornale ne ha scritto molte volte. Senza innovazioni audaci, profonde, rapide l’anno scolastico 2011-2012 si aprirà in condizioni peggiori dell’anno di grazia 2010-2011, che è alle porte. Detto altrimenti: ai nostri figli non sarà consegnato il patrimonio del sapere che è stato dei padri e dei nonni e degli antenati lontani; si spezzerà il filo delle generazioni e della civilizzazione. Alcune innovazioni sono già state avviate e sperimentate: il lavoro di équipe, i Dipartimenti, la didattica per competenze, nonché la semplificazione degli indirizzi, del numero di ore ecc… Altre sono ancora in discussione: la formazione degli insegnanti, il reclutamento, lo stato giuridico. Solo qualche rondine; non è ancora primavera, ma potrebbe arrivare, forse.

 

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Ma intanto? Ad ogni inizio d’anno viene lanciato l’appello agli insegnanti ad impegnare il proprio Io, ad assumersi le proprie responsabilità, senza attendere gli ingenti mutamenti di sistema, che ogni anno appaiono tanto necessari quanto futuribili. No dunque all’attendismo. Ma c’è un aspetto che rende questo appello controproducente, ingenuo e anche ingiusto nei confronti degli insegnanti. Se davvero tutto dipende, ultimamente, dalla responsabilità degli insegnanti, e se il bilancio educativo del sistema è in perdita, significa, dunque, che alla fine è colpa dell’Io pigro degli insegnanti. Questa conclusione non voluta e paradossale dell’appello alla valorizzazione dell’Io è tuttavia logica.

 

Viceversa, se si parte dal fatto che la responsabilità e la libertà degli insegnanti, anche di quelli dotati di un Io sveglio e generoso, è compressa dentro un sistema istituzionale, ordinamentale, amministrativo, organizzativo che ne impedisce un’efficace messa in gioco, allora le responsabilità sono innanzitutto politiche e amministrative. Se le 18 ore di un insegnante sono frammentate su 4 o 5 o 9 classi – poche ore settimanali per classe – e se questa condizione si deve moltiplicare per gli 819.000 insegnanti in servizio, è l’insegnante responsabile? È anche lui, come i ragazzi, una vittima. Quale spazio gli si apre per la personalizzazione dei percorsi? E che cosa diviene la mente di Francesca se non un magazzino di materiali inerti, impilati secondo logiche illogiche, determinate non dal sapere, ma dalla distribuzione delle cattedre e delle ore?

 

Ne consegue che già ora l’insegnante deve lavorare per équipe – sconfiggendo la pratica dell’insegnante solista, difesa per una malintesa libertà di insegnamento – per Dipartimenti, per competenze, da ora e senza eccessive illusioni, ma da subito si deve anche battere per il cambiamento del sistema. Anche questa battaglia politico-culturale è parte costitutiva della responsabilità del docente in quanto docente. L’importante è eliminare gli alibi: quello del disimpegno professionale, in attesa che la politica cambi il mondo; quello del disimpegno politico, nell’illusione che basti occuparsi della propria classe qualche ora alla settimana.

 

 

 

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