La prima edizione di Education at a glance (“Uno sguardo sull’educazione”) fu pubblicata nel settembre del 1993, e comprendeva 38 indicatori per un totale 259 pagine: l’edizione del 2009, l’ultimo che ho sotto gli occhi, è di 469 pagine, e comprende 25 aree, ciascuna delle quali suddivisa in più indicatori. Uno sguardo sull’educazione è stato indicato come la priorità numero uno dai membri del consiglio di amministrazione dell’OCSE CERI, di cui assorbe, insieme a PISA, la maggior parte delle risorse umane e finanziarie (nel 2008 fu finanziato per due anni su di una base minima di 800.000 euro l’anno).
L’edizione del 2010 comprende 38 paesi e include indicatori del tutto nuovi, ad esempio sulla scelta e la partecipazione dei genitori, sull’impatto a lungo termine dell’educazione, sulla partecipazione all’educazione permanente, e un ampliamento degli aspetti finanziari. Il fatto che i dati siano relativi al 2008, e in alcuni casi al 2007, suggerisce una certa cautela nel leggerli come legati alla crisi economica, che in quell’anno era ancora non percepita, e ancora meno lo era nell’anno in cui le decisioni erano prese, di norma l’anno precedente.
I primi commenti parlano, quasi inutile dirlo, di una scuola italiana “bocciata” da tutti i punti di vista. Alle molte ore di scuola non corrisponde un eguale livello di apprendimento: all’età di 15 anni, quando secondo i dati PISA l’Italia si colloca a bassi livelli di apprendimento, l’orario medio dei paesi OCSE è di 921 ore, e quello italiano di 1089, e alle medie, i bambini italiani passano a scuola 1001 ore contro una media di 892.
I livelli di istruzione non sono male: i tassi di diploma in Italia coincidono con la media europea, 85%, e il tasso di passaggio all’università è del 53%, solo due punti in meno, e in entrambi i casi le femmine sono più numerose dei maschi. I dati sugli abbandoni universitari segnano un miglioramento, ma temo che scontino l’effetto di recupero esercitato dall’introduzione della laurea triennale, effetto che sta lentamente svanendo e riportandoci ai vecchi e pesanti livelli di abbandono. Pur concordando sul fatto che l’efficacia della scuola italiana è bassa, e certamente migliorabile, vorrei ricordare che è importante fare riferimento agli andamenti: in dieci anni la quota di italiani fra 25 e 64 anni in possesso del solo obbligo è diminuita di undici punti, quella di diplomati è aumentata di sette punti e quella di laureti di nove, con un aumento annuo del 5,2% che è il più alto fra i paesi europei dopo Polonia (+6,4%) e Portogallo (+6,2%).
I dati finanziari sono da sempre la nota dolente, ma anche qui vediamo se è possibile uscire da un’ottica masochista. Per quanto riguarda la spesa, si conferma che l’Italia sta in coda, e spende in istruzione il 4,5% del Pil, contro una media OCSE del 5,7%, e la spesa per l’istruzione è pari al 9% della spesa pubblica totale, contro il 13,3% della media OCSE. Senza voler giustificare il basso livello della spesa in istruzione, sulla cui importanza l’unica cosa che si spende sono i fiumi di parole, credo che sarebbe opportuno tenere presenti i fattori demografici, con una popolazione più vecchia della media europea e dei paesi dell’OCSE, per cui il peso dell’assistenza e delle pensioni sulla spesa pubblica è molto maggiore. Trovo grave, piuttosto, che la quota maggiore della spesa, oltre l’80%, vada per le retribuzioni, confermando l’idea che la scuola italiana (ma forse anche i servizi sociali) sono pensati innanzitutto per gli operatori e non per gli utenti. Noto anche che il 92,3% dei fondi per l’istruzione vengono dal pubblico, il 6,0% dalle famiglie e solo l’1,7% dai privati, ma questo dato richiederebbe un lungo commento che qui non ho lo spazio per fare.
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I proporzionalmente pochi soldi per la scuola vengono però spesi prodigalmente, visto che il costo pro capite degli studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado è superiore alla media OCSE, mentre è inferiore nella scuola superiore e soprattutto nell’istruzione di terzo livello, e il costo cumulativo per portare uno studente dalla prima elementare al diploma è di 101mila dollari contro 94.500 di media. Gli autori stessi, nelle avvertenze metodologiche, segnalano che si tratta di un indicatore impreciso, con valore orientativo, e bisogna tenere conto che il dato italiano è relativo a 13 anni, e quello medio a 12,4 anni, per cui il costo annuo è abbastanza simile, 7.769 dollari per l’Italia contro 7.620 per la media OCSE: piuttosto, lo spreco è dato dal fatto che si tenga conto di tutti gli studenti, anche quelli che abbandonano, che in Italia sono particolarmente numerosi.
La componente maggiore della spesa è la retribuzione dei docenti, su cui si tende a dire che si spende molto, eppure i docenti sono poco pagati (la conseguenza logica, cioè che si possono pagare bene poche persone o male tante persone, ma non bene tante persone, viene ignorata). I dati su cui bisognerebbe fare i confronti sono numerosi: il principale è il numero di ore/studente erogate. Per chiarire: il mitico insegnante tedesco della scuola secondaria di primo grado dopo 15 anni di carriera prende sì 57.978 euro l’anno, contro i miseri 32.859 del suo collega italiano, però ha una media di 14,9 studenti contro 10,2, e sta in classe per 758 ore contro 601.
Ne consegue che l’insegnante italiano eroga 6.130 ore/studente ogni anno, e il suo collega tedesco ne eroga 11.294, quasi il doppio (l’84% in più), per uno stipendio che è superiore del 76%. Questo significa che se valessero gli stessi parametri, la scuola di base italiana potrebbe funzionare con circa il 60% degli insegnanti che ha adesso, che potrebbero quindi essere pagati molto meglio… ma temo che non sia un discorso molto popolare, in questo momento. L’insegnante tedesco, infine, percepisce 76 euro per ogni ora di presenza in classe, contro i 55 dell’insegnante italiano, ma resta in scuola 1750 ore l’anno, mentre in Italia questo tempo non è previsto, o non indicato.
Mi scuso per questo commento così schematico, e mi rendo conto che più che i dati ho commentato i commenti, ma penso che sarebbe necessaria una seria riflessione, finalizzata non a stracciarsi le vesti per poi non cambiare nulla, ma a identificare le priorità su cui intervenire, individuando i soggetti coinvolti e i tempi necessari per agire sui punti deboli. Questo è il motivo per cui era nato Uno sguardo sull’educazione, che si proponeva di fornire ai ricercatori e ai politici uno strumento di comparazione fra le nazioni per valutare lo stato di salute dei sistemi formativi (scuola, università, formazione professionale, formazione permanente): oggi sembra prevalere l’aspetto mediatico, e passato lo scalpore degli annunci tutto resta come prima.