Nell’accanito dibattito sulla valutazione degli insegnanti è spuntata anche l’ipotesi di utilizzare i dati delle rilevazioni del Servizio Nazionale di Valutazione Invalsi per individuare le scuole con migliore Valore Aggiunto. Ipotesi interessante ed anche ardita, visto lo stato degli studi e delle ricerche in Italia in proposito.
Stupisce però che l’utilizzo di quei dati sia stato pensato solo per una ristrettissima sperimentazione e non ci si ponga il problema di una loro generalizzata diffusione, a più di tre anni dalla felice ripartenza della valutazione Invalsi.



È di questi giorni la comunicazione ufficiale alle scuole superiori italiane che nel maggio prossimo verrà effettuata la somministrazione anche nelle loro seconde classi delle prove Invalsi di Italiano e Matematica. Qualcuno fra i docenti ed i dirigenti comincia a ricordarsi di alcune esternazioni del ministro Gelmini circa la possibilità che dall’anno scolastico prossimo una parte dell’esame di stato finale della secondaria consista in una prova standardizzata esterna, come già avviene da tre anni in quello della terza media. Del resto il decreto milleproroghe ha portato con sé ancora una volta la notizia che i 25 punti di vantaggio che Fioroni voleva attribuire ai famosi 100 e 100 e lode per l’ammissione ai corsi universitari a numero chiuso non potranno essere attribuiti. In quattro anni la commissione che lavora al ministero per l’applicazione della norma non ha raggiunto ancora un accordo su come calibrare i voti in uscita da diverse scuole e indirizzi. Ad impossibilia nemo tenetur.



Tutto bene. Sicuramente anche quest’anno gli esperti al lavoro all’Invalsi sapranno cavarsela egregiamente.
Ma ci si comincia anche a domandare che fine facciano questi dati che si stanno accumulando oramai dal 2007-2008 e che riguardano 1 annualità per la prima media, 2 annualità per la seconda e la quinta elementare, 3 annualità per l’esame di stato della terza media. Fra sei mesi avremo per tutti un’annualità a disposizione in più ed al gruppetto si sarà aggiunta la seconda superiore.

L’Invalsi ha più volte dichiarato che obiettivo delle prove era offrire alle scuole strumenti per il miglioramento. Se ne sa qualcosa? In questi anni in quante scuole sono state avviate iniziative serie e con una effettiva  ricaduta che, a partire dall’analisi dei dati, abbiano agito sulle attività didattiche ordinarie? nel Paese dei mille progetti sono stati istituiti meccanismi istituzionali che incoraggino e facilitino tali iniziative?



Un primo esito delle somministrazioni è l’uscita nell’estate successiva dei Rapporti Nazionali sui dati del campione di scuole e di studenti selezionato e tenuto sotto controllo. Questi Rapporti consentono con rigore scientifico di varare alcune osservazioni ed ipotesi sui livelli di apprendimento e sui rapporti fra questi ed alcuni fattori di contesto raccolti con il Questionario studente e la Scheda per le scuole.

Un secondo esito è l’invio nei mesi di ottobre e di novembre dei loro dati alle scuole in forma assolutamente riservata. E poi cosa succede? I presidi bennati ci fanno un collegio, i bennatissimi istituiscono gruppi didattici interni per prendere le opportune decisioni. Mancano statistiche – del resto queste da noi mancano anche sugli iscritti – ma circola il dubbio che la grande maggioranza li infili nel cassetto. Se nessuno obbliga, preme o controlla, se la società civile – anche nelle organizzazioni dei genitori e perché no? dei consumatori tace – perché cercare grane? Ed anche all’interno della scuola, perché creare problemi fra gli insegnanti delle diverse sezioni? Come diceva Don Abbondio, il coraggio uno non se lo può dare.

Sembra maturo il tempo di decidere sulla pubblicizzazione di questi risultati. Fino a 14 anni la mobilità delle iscrizioni è limitata in Italia, anche a causa di motivi geografici e della difficoltà di spostamenti dei bambini. Nel nostro Paese non si sceglie ancora la casa in relazione alla qualità della scuola di quartiere, forse perché, visti i criteri di allocazione sociale, si pensa che è più utile restare vicino alla propria famiglia. Ma alle superiori, soprattutto nelle grandi città – che fanno immagine e fanno pensare che certi fenomeni sociali siano più diffusi di quanto in realtà non siano – questa mobilità è in atto da tempo ed ha decretato fortune e sfortune delle scuole. Ma i dati su cui ci si muove sono impressionistici, se non talvolta fuorvianti, come l’infiocchettamento dei POF.
 

Un’informazione adeguata sui livelli effettivamente raggiunti dagli allievi nelle competenze base aiuterebbe a stimolare in dirigenti ed insegnanti il desiderio di efficacia, forse più di tanti marchingegni di valutazione fra pari o di novellate valutazioni ispettive, per le quali peraltro sembra continuerà a mancare perfino la materia prima.

La pubblicità dei dati consentirebbe anche operazioni di analisi più approfondita, a partire da quelle sul valore aggiunto delle scuole che sarebbe possibile realizzare anche a livello micro territoriale, utilizzando i risultati dei questionari di accompagnamento sopra ricordati. Ancorare la valutazione delle scuole anche ai risultati di queste prove sembra infatti una strada obbligata. Purché naturalmente si depurino i risultati dalle condizioni di contesto.

Per fare ciò però è necessario prima definire una qualche forma di pubblicizzazione dei risultati. Non tutti i Paesi europei adottano i sistemi drastici degli anglosassoni, a base di graduatorie. Alcuni consegnano i risultati alle autorità locali (per noi le Regioni). Altri impongono che vengano pubblicizzati nella brochure della scuola. Altri ancora non ne fanno nulla, ma sono o i sistemi che non riescono a entrare in gara o quelli in cui i controlli a monte sulla qualità degli insegnanti ed il controllo sociale sono così forti da rendere superflui metodi più drastici.
In quale di queste categorie si trova la scuola italiana?