Indignazione o consenso. La questione delle “madri tigri” – rigidissimi metodi educativi cinesi volti ad ottenere prestazioni eccellenti dai più giovani – sollevata da un articolo di Amy Chua sul Wall Street Journal e ampiamente raccolta dal web e dalla stampa internazionale, rischia di fermarsi a giudizi emotivi, improntati spesso al vissuto personale coi propri genitori o figli. L’alternativa educativa che sembra emergere inevitabile è fra permissivismo e rigore, fra una linea soft in cui tutto è permesso con inevitabile produzione di smidollati e una linea dura fatta di disciplina e severità volta alla formazione di piccoli geni destinati al successo sociale. Si tratta però di due presunte alternative che in realtà rappresentano solo facce opposte di una stessa medaglia in cui il primato va sempre alla regola. Per affermarne con forza o negarne radicalmente il valore, fa poca differenza.



Il primato deve invece restare, o forse dovremmo dire tornare, al rapporto, e alla forma che questo assume nei grandi, fra loro stessi e con i minori. Il concetto in sé di “madre tigre” (il saggio della professoressa di Yale Amy Chua si intitola proprio Inno di battaglia della madre tigre) isola e congela chiaramente uno dei genitori all’interno di un rapporto educativo esclusivo, e come tale morboso, col figlio. Sancisce la costituzione di un inopportuno asse a due che confonde i piani e i pensieri, quindi le azioni. Misconosce soprattutto il fatto che il bambino è sempre rapporto con un rapporto. La centralità non va tanto a lui, e a ciò che dovrebbe diventare secondo schemi precostituiti, ma al rapporto fra quell’uomo e quella donna che lui nomina padre e madre: quei due che si sono scelti per stare bene insieme e a cui è accaduto di aver generato un figlio. Che è già un successo per il fatto di essere successo.



Anche nel caso in cui uno dei due genitori manchi, per scelta o per destino, resta l’evidenza che per essere nato un bimbo ha comunque avuto bisogno del contributo di entrambi. Così come è chiaro che per diventare grande non ne basterà mai uno solo, ma ci sarà bisogno di altri padri e altre madri, veramente tali senza bisogno di essere biologici. Crescere bene richiede l’introduzione alla realtà via un rapporto, mai esclusivo e soffocante, piuttosto facilitante il pensiero di convenienza dell’altro. Occorre avere accesso al pensiero che il bene non si autogenera, ma arriva sempre da un altro.
La madre tigre, se da una parte spaventa perché capace di sbranare (ma chi potrebbe poi davvero desiderare di vivere con una tigre in casa?), dall’altra intristisce per la volontaria solitudine cui condanna se stessa: frustrata nelle aspettative e nei desideri cerca un risarcimento nel successo del figlio. Potremmo dire che il suo desiderio è andato in esilio nel figlio, affidandogli il compito impossibile di realizzare il sogno di un altro.



“Non desiderate per loro i vostri desideri” invitava S. Ambrogio nel IV secolo rivolgendosi ai genitori. Aveva già colto, senza aver mai visto un computer, il rischio di programmare i figli considerandoli puri hardware in cui caricare a forza quei software ritenuti necessari per le funzioni future, da svolgere con perizia ed eccellenza.
Grazie a Dio i bambini non sono né macchine da programmare né cuccioli da addestrare, sono soggetti da subito pensanti, alla ricerca del loro star bene, mai disgiunto da quello degli altri. Tuttavia sono anche ingenui, ossia vulnerabili rispetto agli attacchi dei grandi pensati sempre come benefici, soprattutto quelli più vicini. Stiamo allora attenti a non tradire la loro fiducia. Da grandi diventerebbero delle tigri. A loro volta.