«La vera alternativa non è tra rigore e permissivismo, ma tra un’educazione che introduca alla realtà e una che al contrario è ideologica. L’ideologia può assumere molte forme, per esempio un genitore che pretende che suo figlio abbia il talento calcistico di Cassano, invece di tenere conto delle sue qualità e quindi del suo vero bene». E’ la posizione di Giorgio Chiosso, ordinario di Storia dell’educazione dell’Università di Torino, sul saggio «Il grido di battaglia di una mamma tigre» pubblicato dalla professoressa di Diritto della Yale University, Amy Chua. Di origini cinesi, Chua contrappone l’educazione rigida di tipo orientale, che insegna ai bambini a non mollare mai, a quella occidentale, dove al contrario tutto è consentito. Nel suo saggio Chua ha rivelato che il decalogo da lei stessa imposto alle figlie prevede le seguenti regole: «Non è permesso passare un pomeriggio a giocare con gli amichetti, partecipare ai pigiama party, partecipare alle recite scolastiche, guardare la televisione, giocare con il computer, avere dei brutti voti a scuola».



Professor Chiosso, quali sono i pregi e i difetti dei due metodi educativi, quello cinese e quello occidentale?

Innanzitutto, ritengo che non si debba cercare di imitare una forma di educazione proveniente da realtà molto diverse dalla nostra. Se vogliamo avanzare riserve su un certo modello formativo permissivista, non abbiamo bisogno di copiare la Cina. Basta ispirarci al sano e buon modello che ci viene dalla nostra tradizione, secondo cui l’educazione è sempre il confronto tra una persona e la realtà. La realtà non è permissiva. La realtà ha regole, norme, vincoli con i quali dobbiamo fare i conti. Quanto più noi introduciamo precocemente i ragazzi a confrontarsi con la realtà, tanto più creiamo delle personalità adulte capaci di non arrendersi anche di fronte alle situazioni spiacevoli. Se invece li inganniamo fingendo che non ci siano problemi, i ragazzi sentiranno lo scarto tra l’infinità dei desideri dei loro genitori e l’impossibilità di realizzarli.




E per lei che cos’è l’introduzione alla realtà?

Per introduzione alla realtà intendo la cosa più semplice del mondo: la vita come si presenta tutti i giorni. Don Giussani aggiungeva un aggettivo, diceva «realtà totale».

E’ possibile leggervi un invito a superare la parzialità di un’educazione ideologica?

  

Sono totalmente d’accordo. La realtà infatti è il migliore disintossicante dall’ideologia. Nell’educazione, il più grave errore è un atteggiamento intellettualistico, quello cioè che porta a disegnare una realtà immaginaria, perfetta, di un mondo che non esiste e a sfuggire al confronto con le cose concrete. Un po’ come quei genitori, che immaginano che i loro bambini debbano diventare dei grandi giocatori di calcio, come Cassano, e costruiscono l’educazione su questo sogno che nel 99% dei casi non si basa su dei dati oggettivi, ma su una lettura ideologica del figlio. Naturalmente l’ideologia trova applicazione soprattutto nella politica. Ma c’è un uso banale, immediato dell’ideologia che è l’educazione vista secondo i sogni o le costruzioni immaginarie dei genitori.



 

Ma fino a che punto il rigore nell’educazione è un bene?

 

Il rigore fine a se stesso è una sciocchezza, non c’è nessun motivo per elevarlo a regola suprema dell’educazione. Spesso a scuola c’è l’idea che gli insegnanti più bravi siano quelli più severi, ma io non la penso così. Il rigore va sempre commisurato ai vincoli con cui ci dobbiamo confrontare. Quando camminiamo in alta montagna, il rigore di guardare bene dove mettiamo i piedi è la garanzia della nostra salvezza. In altre situazioni possiamo camminare in maniera più libera e rilassata. Il rigore quindi è una componente dell’educazione, ma quella principale è la cura per i figli, l’attenzione emotivo che abbiamo per loro.

La «mamma tigre» cinese elogia il valore del risultato da raggiungere a costo di ogni sacrificio. Che cosa ne pensa?

L’abitudine allo sforzo è un aspetto fondamentale di qualunque educazione. L’uomo se può evita gli sforzi, ma la vita ci pone di fronte alla necessità di compierli. Ma d’altra parte non sono d’accordo sul fatto che dobbiamo compiere ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Intanto bisogna vedere chi stabilisce questi obiettivi, e inoltre se adulto li individua in rapporto ai suoi desideri o al bene del figlio. E’ un punto molto delicato. Per esempio, se noi poniamo ai figli degli obiettivi eccessivamente complessi, alzando sempre di più l’asticella, possiamo anche creare frustrazione, delusione, indurre una bassa stima di sé. Va quindi tenuto conto della giusta dimensione del bambino dentro la realtà nella quale si pone.

 

E in che modo un adulto può riuscire a privilegiare il bene del figlio rispetto a un’idea che si è fatto lui?

 

 

Quando un giornalista chiese alla psicopedagogista francese Francoise Doltò perché suo figlio, invece di seguire la strada della madre, facesse il cantante di cabaret, lei rispose: «I nostri figli non ci appartengono». Mi sembra una frase bellissima, perché l’attività del genitore è gratuita per eccellenza. Noi facciamo tutto per i figli, ma i figli hanno diritto alla loro libertà, a staccare il cordone ombelicale da noi. Proprio per questo, il momento educativo più alto è quello della totale gratuità, dove la relazione con l’adulto è veramente generatrice del bene. Il vero educatore è quello che lavora per il bene dell’altro, senza avere necessariamente alcun ritorno. Il figlio può anche ritorcersi contro il padre, o fare cose diverse da quelle che desidererebbero il genitore, eppure è sempre suo figlio.

Per Chua occorre sacrificare il tempo libero dei bambini. Condivide?

No, il tempo libero ha un ruolo insostituibile, perché consente di attivare delle modalità educative che sono diverse dal tempo dello studio. L’inventore del tempo libero educativo è stato San Filippo Neri, che è stato poi imitato da una lunga storia di santi a partire da don Bosco. Il tempo libero trascorso con i figli del resto è fondamentale, perché consente di esercitare delle attività utili alla crescita, ma più piacevoli, in uno spirito più disteso. Stabilendo una «complicità» che diversamente non sarebbe possibile. Quello che conta non è però la durata, ma l’intensità del tempo libero: è diverso per esempio se lo si trascorre davanti a tv e computer, o se lo si dedica a stabilire delle relazioni significative, più profonde e intense.

 

C’è il rischio di rinunciare a educare per paura di compromettere la libertà altrui?

 

 

Sì, ma la libertà è un processo che si costruisce, si diventa liberi, non si nasce liberi. Tanto è vero che il bambino piccolo, se non c’è qualcuno che se ne occupa, non riesce nemmeno a sopravvivere. La libertà è la capacità di scegliere, quindi i genitori con i giudizi che esprimono, l’esempio che danno, anche nel silenzio riescono a orientare i figli. Quindi ci deve essere il dovere di costruire la libertà, non la paura di negarla con il proprio intervento nei confronti del figlio.

Il saggio della «mamma tigre» nasce anche dalla situazione degli immigrati di seconda generazione. Quali sono i rischi che l’accompagnano?

 

Queste famiglie si trovano in difficoltà notevoli, hanno degli stili di vita diversi da quelli della società in cui vivono i figli. E’ possibile creare un doppio canale, ma è un problema di mediazione non facile, certe consuetudini o problemi di abbigliamento sono di non facile composizione. Il fatto di riuscirci o meno dipende anche dalla scuola, che può essere più o meno aperta alle famiglie immigrate e di conseguenza anche a quelle italiane.

 

(Pietro Vernizzi)