La traslitterazione della prima riga del Libro I della Metafisica di Aristotele suona così: Pàntes ànthropoi to eidénai orégontai fùsei. Tradotto: “Tutti gli uomini per natura desiderano sapere”. È la frase che inaugura la civiltà europea. Ma se alziamo lo sguardo dai “sacri testi” e lo rivolgiamo ai ragazzi delle nostre scuole, a quelli che stanno davanti a noi ogni mattina, quelli cui gli insegnanti passano davanti in serie, ciascuno con il proprio zaino di nozioni da scaricare lì sulla cattedra e tra i banchi, l’affermazione aristotelica non appare affatto autoevidente. I nostri ragazzi hanno desiderio di apprendere?



Le osservazioni empiriche tratte dagli studi OCSE e consimili evidenziano due dati: i ragazzi dei Paesi sviluppati hanno sempre meno voglia di studiare; i ragazzi dei Paesi in via di sviluppo hanno una voglia di studiare più grande dei loro coetanei “ricchi”. Va precisato che tra i Paesi sviluppati si delinea una gerarchia: la Finlandia sta sempre ai primi posti. Ma l’osservazione “nasometrica” condotta nelle scuole di Milano e dintorni, dove la comparazione è resa possibile dalla presenza crescente e molteplice di quasi cento etnie, conferma nei ragazzi extra-comunitari una voglia di studiare più alta di quella dei nativi italiani. Analoga constatazione vale per i ragazzi parigini, londinesi, berlinesi, newyorkesi… Le politiche dei sistemi educativi in Europa, da tempo riformati o da mai – è questo il caso dell’Italia –  si arrabattano da anni a questa parte con questo dato.



Questo fatto contiene arrotolata una domanda drammatica: la caduta del desiderio di apprendere significa la caduta del desiderare in generale? Poiché il desiderio è sempre “desiderio di…” – così come il pensiero è sempre “pensiero di…” – e poiché il desiderio umano è un impasto di logos e libido, la caduta del desiderio di apprendere segnala una caduta di interesse e di amore per la realtà e un avvitamento narcisistico dell’Io in una spirale di volontà di potenza o di depressione di impotenza. Se generalizzato, segnala un’ingente trasformazione antropologica e di civiltà.



Se così fosse, occorre ben altro che una qualche riforma dei sistemi educativi. Occorre non solo un’idea diversa dell’educare e dunque dell’insegnare, ma soprattutto costruire una nuova civiltà, giacché questa – che si è costruita negli ultimi trecento anni – pare aver esaurita la propria energia interiore. È quest’ultimo il pensiero di sociologi delle transizioni e di filosofi della storia nonché degli scenaristi occidentali. Marx, Nietszche, Spengler, Teilhard de Chardin, Baumann – per citarne alcuni – rappresentano i poli teorici di queste diagnosi-visioni-previsioni di civiltà.

C’è una versione meno drammatica del primo quesito. Sì, gli uomini per natura desiderano sapere, ma il sistema educativo che dovrebbe accompagnarli verso la sapienza è un ponte in rovina. Costruito in altre epoche, appunto a partire dal Settecento, con materiali vecchi e metodi sorpassati per società scomparse o via di… Come a dire: il desiderio è intatto, il sistema educativo lo blocca invece di sospingerlo verso la sua riva. A questo vanno aggiunti il nuovo homo sapiens che si va delineando, i digital natives, il cervello digitale ecc…

Intanto, ciò che si vede è che i figli giovani del vecchio mondo euro-russo-americano fanno fatica a fare fatica. Il regno dell’abbondanza e della libertà che Marx proponeva nella seconda metà dell’Ottocento quale fine e destino inevitabile del comunismo è arrivato per la strada del capitalismo. Benché le differenze di classe e di reddito restino molto acute, anche all’interno dei Paesi sviluppati e tra i Paesi sviluppati, è evidente il divario tra il mondo euro-russo-americano, da una parte, e quello latino-americano o asiatico, dall’altra. È come se la sovrabbondanza dei beni tagliasse alla base le radici del desiderio di imparare, di fare, di studiare, di lottare. Mentre i “poveri” desiderano, i “ricchi” consumano. Da questo punto di vista, il rapporto Cina-Usa è paradigmatico.
 

Quali provvisorie conclusioni pratiche, escludendo che in Europa si possa adottare il modello cinese, fondato sulla repressione familiare e sociale, su un autoritarismo feroce e sulla fame, già praticato in Italia fino agli anni ’50 del Novecento? Occorre tenere intrecciate tutte le dimensioni delle politiche dell’educazione e dell’istruzione. Occorre condurre un Kulturkampf sui fondamenti antropologici della nostra civiltà. Se le fondamenta sono marce, questo appare in primo luogo nel sistema educativo. Occorre fare una riforma radicale del sistema educativo, così che sia in grado di costruire i fondamenti di una nuova civiltà.

Separare questi due aspetti: la battaglia antropologica e quella tecnicamente educativa significa, rispettivamente, ridurre la battaglia di civiltà a predicazione ideologica, che intanto accetta passivamente culture, programmi, strutture, amministrazione del sistema educativo vigente; oppure illudersi che nuove tecnologie didattiche, nuovi assetti istituzionali, nuove forme di autonomia, valutazione, formazione e reclutamento degli insegnanti possano di per sé resuscitare il desiderio di apprendere. Nella transizione di civiltà che stiamo vivendo verso estuari sconosciuti l’impresa educativa appare globale.
 

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