Un mio precedente articolo, del 13 dicembre scorso, individuava nell’ethos delle scuole legate al territorio la risposta di alcuni paesi del Nord Europa alla sfida educativa. La presente riflessione vuole approfondire questo concetto, che già trova applicazione concreta anche in alcune realtà scolastiche italiane, come quelle che praticano il metodo FAES.
L’ethos riguarda gli obiettivi educativi caratterizzanti la scuola, quelli che mirano a far crescere il bambino o il ragazzo sia come alunno che come persona. Non di rado, infatti, i problemi di apprendimento nelle discipline sono legati ad aspetti di impostazione educativa in senso lato piuttosto che a specifiche mancanze di attitudini disciplinari. Il quadro esistenziale dell’alunno fa sempre da sfondo alla collocazione nella classe dal punto di vista degli apprendimenti e del profitto nelle materie.
Inoltre, non basta che il soggetto sia efficiente e capace di apprendere, bisogna pure che nella pratica trovi le disposizioni necessarie per mettere in gioco i suoi talenti. Deve, in altre parole, inserire le sue potenzialità, le sue conoscenze e le sue abilità in una trama che dia senso allo sforzo che compie. Per poter mettere in moto adeguatamente le risorse che possiede, oltre che sotto il profilo squisitamente “tecnico” deve crescere in quello umano, culturale ed etico/critico.
Per fare questo, risulta facilitante che la scuola sia capace di proporre/ riproporre/ evidenziare costantemente dei valori culturali condivisi o condivisibili dallo Stato ma anche (e necessariamente, pena il fallimento educativo) dai genitori, che sono allo stesso tempo driver e partners dell’asse formativo. Pertanto, la scelta dell’istituzione educativa da loro compiuta risulterebbe indirizzata non solo al profilo “tecnico” ma anche a quello valoriale.
La consapevole e attiva compartecipazione dei genitori diventa così un elemento strategico per la crescita personale: non solo perché questo è ormai evidente in molte autorevoli ricerche sul successo scolastico, ma anche perché, senza il loro aiuto, difficilmente valori e qualità umane arrivano ad essere interiorizzate. Si prepara, così, il terreno sul quale si potranno verosimilmente muovere i comportamenti concreti dei giovani all’uscita dal percorso scolastico.
In questo quadro, il tutor diventa uno strumento facilitante la crescita personale del bambino/ragazzo, posto com’è al punto d’incontro tra genitori, allievi e corpo docente. E’ una figura strategica perché l’efficacia dell’educazione, in tutti i suoi aspetti, è migliorata dalla qualità della relazione tra questi attori.
Sul piano dell’orientamento personale, assume fondamentale importanza il colloquio tra genitori e tutor sui progressi del ragazzo. Nel colloquio tutoriale non si parla solo del profitto (che fa parte della comunicazione specifica dei docenti) ma di motivazioni, valori e qualità umane, atteggiamenti e comportamenti finali. Durante periodici incontri, si mettono a fuoco le risorse e le strategie adottate o adottabili dai genitori e dalla scuola per sviluppare un’efficace azione educativa congiunta: un patto valoriale che proponga e rafforzi obiettivi unitari da realizzare nei due ambiti di vita, familiare e scolastica.
Anche l’apprendimento permanente, concetto chiave nella strategia europea per lo sviluppo dei sistemi educativi, richiama a migliorare le competenze “in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale”, vale a dire nell’ottica di una “comunità educante”, non di una mera agenzia erogatrice di istruzione.
Ma quali valori potranno essere insegnati se la nostra società non offre più un sistema unitario in grado di decodificare i segnali delle molteplici agenzie valoriali in modo utile alla progettualità della persona? se la loro pluralità conflittuale rende meno spendibili i riferimenti tradizionali al bene comune?
Così, la questione “se l’Amministrazione possa educare i giovani” si riduce alla coscienza che lo Stato non sia più portatore di un orizzonte comune ed etico nello stesso tempo. Pertanto, il progetto educativo della scuola in un sistema educativo centralistico rischia nella pratica di essere vanificato da una considerazione impotente e disimpegnata circa la varietà dei codici etici, mentre si sperimentano i limiti di un generico pluralismo nel quale la scuola, di fronte alla varietà delle opzioni, semplicemente smette di educare. Forse perché non ci si può riferire direttamente agli ottimi “valori” della Costituzione (necessaria sintesi negoziale che affonda le radici nelle culture presenti) senza darne ragione a partire da orizzonti antropologici concreti, espressi di volta in volta in una proposta educativa coerente.
Mettere in grado il nostro sistema scolastico di fronteggiare meglio la sfida educativa potrebbe significare, allora, aprire maggiormente alle forze della società civile e riconoscere loro un ruolo e una parità reale, come avviene ormai nei paesi del Nord Europa.
Questo modello porta a due risultati:
Quello di qualificare sotto il controllo dello Stato progetti educativi e pedagogici attorno alle scelte dei genitori (garanti della loro applicazione) o nati dall’iniziativa di gruppi di docenti in collaborazione con le famiglie;
– quello di riportare l’educazione dei figli nelle mani dei genitori, restituendo loro un diritto che storicamente avevano perso negli ultimi secoli, contrassegnati dall’interessato controllo governativo sulla minuta gestione dell’istruzione.
Nel discorso del 29 luglio 2009 Cameron ribadisce queste convinzioni, che saranno applicate appena tre mesi dopo il suo insediamento come primo ministro del Regno Unito: “Porremo fine al monopolio statale sull’educazione scolastica, in modo che ogni organizzazione adeguatamente qualificata possa istituire una nuova scuola. (…) La nostra riforma toglierà dalle mani delle Autorità locali il potere di decidere in merito all’educazione e lo metterà direttamente nelle mani dei genitori, affinché ne abbiano il controllo”.
La differenza, rispetto al modello burocratico di education – quello dello status quo – è la possibilità di tornare a trasmettere in modo unitario quello che, secondo l’ebreo A.B. Yehoshua, è “l’ordine di importanza di ciò che vale veramente la pena conoscere” e una visione coerente del bene e del male, formata la quale ha senso dialogare con altri che possiedono convinzioni differenti per costruire insieme la società. Diversamente, i generici appelli alla comune cittadinanza saranno sempre più disattesi, non perché manchi il terreno comune, ma perché manca semplicemente il terreno.