Internet, social network, videogiochi, smartphone, tablet, ipod, ipad, lim, cellulari, pc e così via. In vent’anni, le Ntc hanno prodotto un’autentica rivoluzione. Niente è più come prima per i bambini che crescono e per gli adulti che li devono crescere bene. Questi strumenti esaltano l’interattività e il multitasking, l’attitudine a compiere più operazioni contemporaneamente.



Forse perché i nostri neuroni sono autentici specialisti in interconnessioni rapidissime e in multitasking funzionali anzitutto con i «fratelli» anche molto lontani da loro nella topografia cerebrale, in secondo luogo con i «cugini» contenuti nei cervelli di altri uomini (empatia) e in terzo luogo addirittura con gli «estranei» presupposti presenti in agenti che siano protagonisti di filmati e immagini viste o di cui si sente parlare (teoria dei neuroni specchio), sembra ovvio concludere che gradiscano parecchio l’ulteriore rafforzamento artificiale permesso dalle Ntc a queste due loro condizioni naturali di funzionamento. Interconnessioni e multitasking alla seconda potenza, quindi. I neuroni, soprattutto quelli più primitivi, ne godono. L’input tecnologico modifica la topografia del nostro cervello e produce, di conseguenza, anche la possibilità di nuovi output comportamentali e mentali, finora mai registrati. Come è noto da millenni, del resto, il contesto modifica il testo. L’ambiente cambia quindi anche la nostra testa.



Non dovrebbe stupire, perciò, quello che racconta il mediologo Clay Shirky. Una bimba di 4 anni abituata a questo diffuso ambiente comunicativo tecnologico stava guardando allo schermo tv un dvd, con i genitori. Nel mezzo del film, si alza dal divano, corre dietro il televisore e fruga tra i cavi del monitor. «Che stai facendo?», chiede il padre ancora piagetiano, e cioè convinto che volesse verificare se le persone del film fossero realmente presenti nell’apparecchio. Lei risponde semplicemente «cerco il mouse»: non cerco quello che pensi, ma il modo di interconnettermi attivamente con questi personaggi di cui comprendo le azioni e i loro significati.



Non di meno possono sorprendere i risultati di una ricerca Avg, azienda ceca che produce software antivirus, riportata su tutti i giornali nelle settimane scorse. Il 69% di un campione di 2.200 bambini in età compresa tra 2 e 5 anni usa con appropriatezza il mouse; il 63% sa accendere e spegnere un pc; il 58% sa giocare a un videogame; il 28% è in grado di chiamare qualcuno al cellulare; il 25% di lanciare un programma di navigazione web e accedere a Internet; il 19% di giocare con un’applicazione su dispositivi touch come tablet e smartphone. Percentuali che sicuramente gli adulti e gli anziani non raggiungono, pur avendo anche loro, per tutta la vita, neuroni cerebrali plastici, adattabili, recettivi alle influenze ambientali portate dalle Ntc.
 

Immaginare, perciò, di poter educare ed istruire le nuove generazioni allo stesso modo, negli stessi luoghi e negli stessi tempi di quelle che le hanno precedute è ingenuo o irresponsabile. È necessario tener conto delle novità talvolta radicali che sono affiorate con la vera e propria «rivoluzione culturale, filosofica, psicologica e neuronale» rappresentata dalle Ntc. Novità che sono ormai diventate, per un numero sempre maggiore di giovani, anche sociologicamente dominanti.

Il problema, però, non è questo. Ogni vero educatore che non si sia ridotto a mero «funzionario», infatti, ha sempre saputo non solo che ogni persona è diversa dall’altra e va trattata sul piano formativo tenendone ben conto, ma che la stessa cosa accade con ogni nuova generazione. E a modo suo, con i mezzi che l’esperienza e la scienza gli hanno a volta a volta suggerito, ogni educatore responsabile ha sempre fatto tesoro di questa consapevolezza.

Anche Platone, del resto, fu sorpreso, al suo tempo, dalla «rivoluzione» della scrittura. La sua invettiva contro di essa è fin troppo nota. Avrebbe ucciso l’amore del sapere, quello vero, non adulterato. Non a caso il cuore del suo pensiero, ci dicono gli storici, si troverebbe nelle dottrine non scritte. Ma Platone si guardò bene dall’assolutizzare la sua critica alla scrittura e di trasformarsi in un cantore apocalittico della sua scomparsa. Praticò il dialogo e la parola orali con i suoi allievi, certo, ma ossimoricamente non ebbe nessun snobismo ad aver a che fare con lo scritto. Anzi, tentò di arginarne i difetti. Anticipando, fra l’altro, quanto poi la neurologia confermerà: durante la lettura i neuroni del nostro cervello «rallentano», posticipano di pochi millesimi di secondo la trasmissione neuronale per e da altre cellule nervose: è come se si creassero le condizioni fisiologiche per rimanere immobili, in silenzio, concentrati, così da «pensare» di più e più in profondità. Nell’orale non accade.

La stessa sorpresa è capitata con l’introduzione della lettura silenziosa. Agostino vedendo Ambrogio, nella basilica milanese, leggere senza parlare ad alta voce capì subito che non era soltanto una stravagante questione tecnica. C’era di mezzo anche qui una «rivoluzione», se mai avesse avuto gli strumenti per documentarlo. Quella dell’io e della coscienza che lui, del resto, frequentò da par suo, anticipando di gran lunga acquisizioni anche meno significative oggi avanzate empiricamente dalle neuroscienze.
 

Non diversamente è accaduto con Gutenberg. Certo la stampa non è la scrittura manuale dei copisti. E scrivere e leggere ad alta voce o in silenzio un libro a stampa non è la stessa cosa di scrivere e leggere ad alta voce o in silenzio una pergamena, una lettera manoscritta, un testamento olografo ecc. Così come capire una macchina disegnandone dal vero i pezzi non è in tutti i sensi equivalente a capirla vedendone le fotografie riportate in un testo a stampa. Un’altra «rivoluzione» che cambia il cervello e il suo mondo.

Fatta la tara alle esagerazioni e alle esasperazioni che sono buone più per i tempi brevi che per i tempi lunghi e più per giustificare le proprie inanità che per motivare azioni responsabili, infatti, la storia dell’educazione non è mai stata una successione di sorpassamenti o di rinnegamenti, ma semmai di ri-assunzioni. Nel senso anche etimologico di «farsi nuovamente carico»: farsi carico delle cose nuove e farsi carico di quelle vecchie, recuperandole, aggiornandole, adattandole, rimettendole a vita nuova. Ciò che si è sempre chiamato «tradizione»: quanto di vivo una persona consegna all’altra, una generazione trasmette all’altra.
 
Il problema dell’educazione, quindi, non sono le Ntc, con tutte le novità che esse comportano e che sarebbe deprecabile non considerare con la dovuta attenzione. Il problema dell’educazione è che queste novità siano le uniche cose vive che si trasmetteranno alle nuove generazioni perché si fanno morire quelle che le generazioni precedenti ci hanno invece consegnato. Il problema dell’educazione è l’incapacità a tener vivo quanto è stato vivo solo perché non lo si alimenta più, non si trovano più le modalità di armonizzarlo con altra e diversa vita, arricchendo il complesso dell’esperienza umana di sfaccettature finora inedite.

Il nostro cervello, dicono oggi i neuroscienziati di qualsiasi scuola, ripetendo quanto avevano già detto in modo diverso Maritain e prima di lui Tommaso o Aristotele, è incredibilmente sottoutilizzato. Le sue potenzialità non si trasformano affatto, purtroppo, in atto. Lo stesso discorso si potrebbe riprodurre a livello culturale, filosofico, psicologico: anche a questi livelli, al posto di arricchire, amputiamo; al posto di ottimizzare le differenti dimensioni, ne assolutizziamo una; al posto di crescere riordinando e ristrutturando le diversità rendendole compatibili, ne facciamo crescere una in maniera teratomorfa; al posto di comprendere che ogni farmaco è sempre, allo stesso tempo, anche un veleno, per cui serve identificare la giusta misura in tutte le cose, ci facciamo prendere dalla hybris e trasformiamo i farmaci in veleni e i veleni in farmaci.
 

Non ci deve allora preoccupare il fatto che così tanti bambini di 2-5 anni e anche tanti giovani siano «nativi digitali» e che abbiano la testa, il cuore e le mani da «nativi digitali». Ci deve preoccupare, al contrario, il fatto che abbiano solo «questa» testa, «questo» cuore e «queste» mani digitali, e che per esempio: non abbiano mai giocato con la terra di un prato; non vadano più in bicicletta con gli amici; non ascoltino mai o troppo poco persone reali che piangono o ridono, leggendo loro una storia su un libro; non impieghino le mani e una penna per scrivere in corsivo; non solo non allevino animali, ma non li abbiano mai visti di persona; che usino le mani per il mouse, ma non come tenaglie, pinze, cacciaviti, succhielli, lamiere, percussori ecc. per risolvere problemi in situazioni reali di vita; che scambino le strisce pedonali di Abbey Road per una canzone dei Beatles; che confondano l’esperienza virtuale delle Ntc, cosa buona, non tanto con il reale in atto (questo capita quando proprio siamo alla patologia conclamata, da manicomio) ma con il ben più importante concetto di esperienza potenziale di Aristotele per il quale il web è del tutto controintuitivo; che lavorino con ipertesti, ma non abbiano mai letto (o ascoltato) dall’inizio alla fine un romanzo, e abbandonino perciò I ragazzi della via Pal perché nella seconda pagina Boka ruba un oggetto che nessuno sa più che cosa sia (un calamaio) e I fratelli Karamozov perché «troppo lunghi», e così via. Per l’uomo, infatti, checché se dica, resta valido sempre l«‘ntender no la può chi non la prova…» (“Tanto gentile e tanto onesta pare”, v. 11, Vita nuova). Non c’è scienza possibile di niente insomma senza esperienza.
 

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