Ho letto il discorso di Obama sullo Stato dell’Unione. Invito tutti, specialmente gli insegnanti, ma anche i genitori e quelli che a vario titolo hanno a che fare con la scuola a fare altrettanto; almeno per la parte dedicata all’educazione. Dovremmo farne oggetto di discussione nelle scuole, tra i docenti, magari per iniziativa di qualche associazione.
Ecco i passaggi che mi hanno colpito. La determinazione: le parole del presidente americano mi paiono incarnare la decisione di una Nazione a fronteggiare le difficoltà che attraversa in nome di uno scopo comune, più forte delle divisioni che pure non mancano: l’appartenenza al popolo. Non è cosa da poco se la paragoniamo alla rassegnazione e alla divisione che si respirano da noi.
Nel rumore, nella passione e nel rancore del nostro dibattito pubblico, Tucson ci ha ricordato che chiunque siamo o da dovunque veniamo, ciascuno di noi è parte di qualcosa di più grande, qualcosa di più importante del proprio partito o della propria scelta politica. Siamo parte della famiglia americana.
La centralità dell’educazione. In inglese istruzione si dice education. Tuttavia, qualunque cosa significhi in quella lingua, noi siamo in grado di tradurla e apprezzarla secondo tutta l’ampiezza del suo significato. Educare: far crescere.
Se vogliamo guadagnarci il futuro – se vogliamo che l’innovazione crei posti di lavoro qui in America e non all’estero – allora dobbiamo vincere la “gara” dell’educazione dei nostri figli.
La convinzione che la responsabilità educativa sia un compito di tutti, a partire dalla famiglia e dalla comunità di cui si fa parte.
Questa responsabilità comincia non nelle classi, ma prima ancora nelle nostre case e nelle nostre comunità.
Il metodo proposto: il contrario del centralismo, del corporativismo, dell’assistenzialismo.
Quando un bambino entra in classe, dovrebbe trovarvi un luogo di grandi aspettative e di alta performance. Ma troppe scuole non fanno questo. Ecco perché invece di riversare soldi in un sistema che non funziona, abbiamo lanciato una competizione chiamata Corsa al Top. E ai 50 stati abbiamo detto: “se voi ci fate vedere i vostri progetti più innovativi per migliorare la qualità dell’insegnamento e la preparazione degli studenti, allora noi vi faremo vedere i soldi”.
L’idea che il cambiamento non viene dal centro, ma dalla periferia; dall’esperienza di persone che si mettono insieme e lavorano. Qualcuno chiamava tutto questo minoranze creative.
Noi sappiamo bene cos’è possibile ottenere dai nostri bambini quando la riforma non è qualcosa che viene calato dall’alto, ma il lavoro di docenti e dirigenti, dei consigli scolastici e delle comunità.
L’indicazione a tutto il Paese di un esempio da seguire. È un modo intelligente di esercitare l’autorità che deriva dal potere di cui si dispone.
Prendete una scuola come la Bruce Randolph di Denver. Tre anni fa era classificata come una delle peggiori scuole del Colorado, oggetto di contesa tra due bande rivali. Ma lo scorso maggio il 97 per cento degli allievi ha ottenuto il diploma. La maggior parte saranno i primi delle loro famiglie ad andare all’università. E a un anno dalla trasformazione della scuola, il direttore che ha fatto tutto questo non ha potuto trattenere le lacrime quando uno studente gli ha detto: “Grazie, Mr. Waters, per averci fatto vedere che siamo persone intelligenti e possiamo farcela”. Questo è quello che le buone scuole possono fare , e noi vogliamo buone scuole in tutto il paese.
Infine, il riconoscimento della dignità sociale del lavoro degli insegnanti che si assumono interamente la responsabilità di essere i primi protagonisti dell’opera educativa.
Ricordiamoci anche che dopo i genitori, l’impatto maggiore sul successo di un ragazzo ce l’ha l’uomo o la donna che sta davanti a tutta la classe. Nella Corea del Sud gli insegnanti sono chiamati “nation builders”, costruttori della nazione. È ora che anche qui in America trattiamo coloro che educano i nostri figli con lo stesso livello di rispetto. Noi vogliamo premiare i bravi insegnanti e smettere di accampare scuse per quelli scarsi.
Certo, il discorso di Obama non è il Vangelo e l’America non è il Paradiso. Qualcuno obietterà che la scuola viene subordinata alle esigenze dell’economia, che c’è un’attenzione unilaterale alle discipline matematiche e tecnico-scientifiche, che c’è il rischio della tecnocrazia o dello scientismo, che l’impulso a conquistare l’ennesima frontiera è un inno all’egemonia americana.
Dagli stessi Stati Uniti provengono a questo proposito valutazioni critiche molto interessanti. Per esempio, Martha Nussbaum, filosofa e docente di Legge ed etica all’Università di Chicago, ha scritto: “Stiamo vivendo una crisi di enormi proporzioni e di portata globale. Non mi riferisco alla recessione economica cominciata nel 2008, ma a una crisi che passa inosservata e che alla lunga sarà molto più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione.(…) Gli studi umanistici e artistici stanno subendo pesanti tagli sia nell’istruzione primaria e secondaria sia in quella universitaria, in quasi tutti i paesi del mondo. In un momento in cui gli stati devono eliminare il superfluo per rimanere competitivi sul mercato globale, le lettere e le arti – considerate accessorie dai politici – stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, dalle menti e dai cuori di genitori e studenti. E anche quelli che potremmo definire gli aspetti umanistici della scienza e delle scienze sociali – l’aspetto creativo e inventivo, e il pensiero critico rigoroso – stanno passando in secondo piano, perché si preferisce inseguire il profitto a breve termine garantito da conoscenze pratiche adatte a questo scopo” (Martha Nussbaum, Not for profit. Why democracy needs the humanities, Princeton University Press).
Come si vede la discussione è aperta; sarebbe un peccato rimanerne fuori. Cinquant’anni fa un altro presidente americano, J. F. Kennedy, in un breve discorso dedicato al Centenario dell’Unità d’Italia faceva queste considerazioni: “Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana. È un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo. Tutto quello per la cui salvaguardia combattiamo oggi ha avuto origine in Italia, e prima ancora in Grecia.(…) Il Risorgimento, da cui è nata l’Italia moderna, come la Rivoluzione americana che ha dato le origini al nostro Paese, è stato il risveglio degli ideali più radicati della civiltà occidentale: il desiderio di libertà e di difesa dei diritti individuali. Lo Stato esiste per proteggere questi diritti, che non ci vengono grazie alla generosità dello Stato. Questo concetto, le cui origini risalgono alla Grecia e all’Italia, è stato, secondo me, uno dei fattori più importanti nello sviluppo del nostro Paese. (…) Per quanto l’Italia moderna abbia solo un secolo di vita, la cultura e la storia della penisola italiana vanno indietro di oltre duemila anni. La civiltà occidentale come la conosciamo oggi, le cui tradizioni e valori spirituali hanno dato grande significato alla vita occidentale in Europa dell’Ovest e nella comunità Atlantica, è nata sulle rive del Tevere”.
Dalla periferia, appunto.