La legge di riforma dell’università? Da condividere in pieno, sancisce un nuovo punto di partenza che ora non deve tradire lo spirito di una vera riforma. «Ma il riscontro positivo – dice al sussidiario Enrico Decleva, presidente della Crui – deve potersi misurare anche sul terreno delle risorse. Chiunque abbia le responsabilità di governare».
Professor Decleva, il Presidente della Repubblica ha firmato la legge di riforma dell’università, non senza alcune raccomandazioni. Come valuta l’evidenza posta dal Capo dello Stato sulle «criticità» della legge?
«Con l’autorità e, mi permetto di aggiungere, la saggezza e l’equilibrio che lo contraddistinguono, il Presidente Napolitano pone l’accento su aspetti reali, frutto, in un caso, di oggettiva negligenza nel controllo di coerenza dei testi, e in altri due casi di interventi parlamentari probabilmente non necessari. Niente che non possa essere verificato e rimediato. Il punto più importante mi sembra in ogni caso un altro, e cioè il richiamo a un clima di dialogo e di confronto costruttivo nella applicazione della legge. Di questa legge, beninteso modificabile e da modificare se si dimostrerà in qualche parte inadeguata o inapplicabile, ma che costituisce in ogni caso quanto di meglio si sia riusciti a mettere insieme in un periodo tra i più difficili della storia repubblicana. Non è meno rilevante il richiamo a tenere conto degli ordini del giorno votati dal Senato che pongono in evidenza gli ulteriori obiettivi da perseguire. La legge, in quest’ottica, da condividere senza riserve, appare come un punto di partenza dal quale prendere le mosse e su cui lavorare in un clima di larga partecipazione».
Qual è dunque il suo bilancio, al termine di un iter così «avventuroso»?
«Il bilancio complessivo rimane largamente positivo. Nel passaggio alla Camera si sono verificate aggiunte impreviste e non tutte ugualmente apprezzabili, ma ci sono stati anche inserimenti significativi, peraltro pochissimo rilevati nel clima esasperato delle scorse settimane. I compiti del Senato accademico sono stati rafforzati. La riduzione a 40 degli afferenti minimi dei dipartimenti faciliterà la ricomposizione di questi ultimi su basi omogenee. La previsione più allargata della struttura intermedia, comunque denominata, che coordinerà la didattica assicura maggiore funzionalità e rappresentatività delle competenze. Le esigenze specifiche legate alle funzioni sanitarie sono state riconosciute. Si sono estese le possibilità di mobilità dei docenti tra le sedi. L’articolo sul dottorato di ricerca apre la strada a una nuova e più aggiornata regolamentazione della materia. La costituzione di un unico Comitato dei garanti per la ricerca incaricato di sovrintendere alle operazioni di selezione e valutazione, tramite peer review, dei progetti corrisponde ad una richiesta avanzata da anni da alcuni dei migliori e più apprezzati scienziati italiani. E potrei continuare».
Quindi le ultime integrazioni le altre introdotte in precedenza dal Senato non hanno snaturato l’impianto di fondo del provvedimento.
«No, l’hanno al contrario oggettivamente migliorato, riducendo una parte almeno delle prescrittività troppo rigide e introducendo disposizioni di buona efficacia su vari aspetti. Fermo naturalmente restando che una cosa è la legge, un’altra cosa la sua applicazione. Per certi versi la parte più difficile comincia adesso… Ma almeno avremo qualcosa di concreto su cui lavorare e misurarci, in un clima, speriamo, più responsabile di quello – fortemente ideologico e condizionato dal quadro politico – che abbiamo subìto negli ultimi mesi».
Il problema principale è sempre il solito. Ci sono i fondi che servono per attuare la riforma?
«Occorre distinguere. Il ddl si è bloccato in ottobre per la mancanza di garanzie finanziarie sulla copertura dei 1500 posti aggiuntivi di professore associato che, anche a seguito dell’iniziativa della Crui, si volevano destinare ogni anno ai ricercatori a tempo indeterminato che avessero conseguito l’abilitazione a professore associato. Nella sua versione finale la riforma può fare riferimento alla legge di stabilità, nel frattempo approvata, che ha fatto recuperare sul Fondo di finanziamento ordinario (FFO, ndr), rispetto ai tagli decisi nel 2008, 800 milioni per quest’anno e 500 milioni per i due anni successivi, garantendo quindi la copertura dell’operazione preconizzata. E sia pure solo per i prossimi tre anni, lasciando alle future finanziarie di estenderla ai tre anni successivi, come inizialmente auspicato. E come è indispensabile che avvenga, anche considerati i vuoti che si stanno determinando in seguito alle uscite dal servizio. Diciamo che le risorse per partire dunque ci sono. Ed è qualcosa. Se, come è vivamente auspicabile, il decreto che regolerà le abilitazioni scientifiche sarà presto operativo, le prime chiamate secondo le nuove procedure potrebbero aver luogo già nel 2011. Il punto è un altro».
L’operazione che ha appena richiamato rappresenterà un capitolo di spesa vincolata dei futuri FFO, giusto?
«Appunto. Niente da dire sul 2011, i cui conti peraltro tornano solo per i numerosissimi pensionamenti e il blocco degli aumenti stipendiali deciso dalle ultime misure finanziarie del Governo. Ma sin d’ora si pone il problema dei FFO 2012 e 2013, che appaiono insufficienti e che andranno incrementati. Potremmo avere le risorse per chiamare gli associati, ma non per altre esigenze irrinunciabili. Su questo la Crui ha già iniziato a prendere posizione. Non si può d’altra parte pensare che la riforma non sia funzionale e non preluda a un rilancio complessivo del sistema della ricerca e dell’alta formazione e che questo possa intervenire senza investimenti. Oculati, per carità. Continuando a ridurre l’inessenziale. E tenendo conto del quadro complessivo e delle difficoltà strutturali che lo caratterizzano. Ma il riscontro positivo della riforma deve potersi misurare anche sul terreno delle risorse. Chiunque abbia le responsabilità di governare. Se ciò accadrà, sarà anche per l’iniziativa sviluppata con tenacia e, inizialmente, in totale isolamento, dalla Crui a partire dal giugno 2008».
Parliamo del personale universitario. Secondo lei chi «vince»? Il merito, l’ope legis, la rendita?
«Potrebbe e dovrebbe vincere, o avere comunque più peso, il merito, se alle norme, che vanno inequivocabilmente in questa direzione, seguiranno comportamenti coerenti. Se, soprattutto, si capirà che, d’ora in avanti, sarà vantaggioso per tutti lavorare in un’istituzione che assume e promuove i migliori e riceve risorse in proporzione. Il vincolo di una parte delle risorse da destinare alle chiamate esterne è, nella situazione italiana dominata dal localismo, un’ulteriore importante novità. Certo, occorreranno comportamenti adeguati da parte di chi si assumerà le responsabilità di governare ciascun ateneo ai vari livelli. Ma è preferibile una sfida del genere – che una parte almeno del mondo universitario è sicuramente in grado di raccogliere – al processo di inevitabile decadenza alla quale eravamo condannati. E che qualcuno sembra ancora rimpiangere».
E cosa pensa nello specifico della nuova figura di docente «in prova»?
«Quanto alla figura del ricercatore a tempo determinato che acquisirà con il secondo contratto l’impegno dell’università a chiamarlo come professore associato, se nel frattempo avrà conseguito la relativa abilitazione, non è che la trasposizione nel nostro quadro normativo di una condizione ampiamente sperimentata nei paesi più avanzati. Perché non dovrebbe funzionare anche da noi? Certo, occorreranno, per questo come per altro, risorse adeguate. Ma una cosa è pretendere, come è giusto, che queste ci siano – e fare della riforma un argomento di pressione in questo senso -; altro dare per scontato che i tagli verranno mantenuti, e quasi desiderando che ciò avvenga (anche quando onestà vorrebbe che se ne registrassero quantomeno le attenuazioni) per combattere la novità e alimentare la protesta. E per difendere, di fatto, una figura come quella del ricercatore a tempo indeterminato, che, non a caso, in trent’anni, non ha mai trovato un assetto definito. E che non ha in ogni caso più senso con i nuovi ordinamenti didattici basati sul “tre più due”».
La premiazione del merito dipende dalla valutazione. L’Anvur ora ha le carte in regola per funzionare a dovere da subito? Cosa manca?
«Manca – ma dovrebbe essere questione di settimane, se non di giorni – la nomina da parte del Ministro del relativo Comitato con il conseguente avvio della struttura organizzativa che dovrà assicurarne il funzionamento. Quanto alle incombenze da assolvere, la legge le indica abbastanza chiaramente».
Lei stesso ha riconosciuto che la parte più difficile comincia adesso. Quali sono le cose da fare subito?
«Una l’abbiamo appena richiamata: l’avvio operativo dell’Anvur. Ci sono poi tutti i decreti e i regolamenti di competenza del Ministero. Circa una quarantina, e cioè non pochi. Anche se di peso e di complessità molto disuguali. Alcuni sono urgentissimi, anche per dimostrare che si fa sul serio, a cominciare da quelli indispensabili per avviare le procedure di abilitazione. Ma non è meno indispensabile mettere quanto prima gli atenei – che devono a loro volta avviare la revisione dei rispettivi statuti – nella condizione di conoscere i criteri di ammissione all’eventuale sperimentazione di particolari modelli funzionali e organizzativi in deroga, come è previsto, alle disposizioni della legge».
L’iter della riforma è stato segnato da un aspra dialettica politica e dagli scontri anche violenti avuti nelle piazze. Secondo lei il confronto è stato strumentalizzato?
«Credo che si debbano distinguere due tempi. Il primo comprende il primo passaggio del provvedimento al Senato: un passaggio caratterizzato da un rapporto complessivamente positivo tra maggioranza e opposizione, nell’ovvia distinzione dei ruoli e delle posizioni, ma senza contrapposizioni frontali e con alcune convergenze su punti significativi. Se, come pure sarebbe stato possibile, non ci fossero stati i tempi morti che si sono registrati tra la conclusione della discussione in Commissione, in maggio, e il passaggio in Aula (avvenuto a sua volta senza drammatizzazioni), il ddl sarebbe potuto approdare alla Camera e uscirne senza troppe difficoltà già prima della pausa estiva. Quando questo è effettivamente accaduto, il quadro politico era al contrario radicalmente cambiato. L’uscita dei finiani dalla maggioranza e la possibilità che questa non esistesse più hanno dato un altro significato alla legge sull’università: nei mesi precedenti, territorio relativamente riparato per un confronto sostanzialmente di merito rispetto agli scontri sui temi caldi che tenevano il campo. Tolti prudenzialmente di mezzo questi ultimi, è rimasta solo l’università come terreno parlamentare di forte impatto sul quale misurare le rispettive forze e strategie: con la tentazione, pressoché irresistibile per una parte almeno dell’opposizione, a vederla come un possibile detonatore per una protesta di portata più generale, da sollecitare esasperando la descrizione in negativo del provvedimento in corso di esame. Come se, davvero, esso fosse l’anticamera di gravi e irreparabili sciagure. Non dimenticando, beninteso, gli oppositori preesistenti, le cui fila si sono in ogni caso a quel punto sicuramente ampliate. Anche dentro la Crui».
Che impressione le ha fatto vedere una riforma così contestata?
«La protesta ha avuto in ogni caso un trattamento molto particolare dalla gran parte dei mezzi di comunicazione. Prescindendo da ogni considerazione sulla sua effettiva consistenza. Come se bastassero di per sé alcuni atti simbolici a dare per scontato un atteggiamento complessivamente contrario in realtà tutto da dimostrare. Non voglio certo dire, con questo, che il mondo universitario – docenti e studenti – sia stato o sia favorevole a una riforma che, in realtà, conosce poco, o di cui non avverte le implicazioni effettive, o che collega comunque a un governo che, in molte sue componenti, avversa. E, questo anche per un oggettivo difetto di comunicazione su un testo che, in ogni caso, si presenta come prevalentemente rivolto agli addetti ai lavori (molti dei quali ne hanno peraltro scritto e, continuano a scriverne, con larga approssimazione). Ma non è il caso di ripercorrere qui quello che è successo prima di Natale, in piazza e dentro le aule parlamentari…»
La sensazione che tutto potesse saltare e che l’università, tanto per cambiare, fosse usata e strumentalizzata per altre finalità, però è stata forte…
«Sì. Soprattutto in chi, nei mesi precedenti, si era invece sforzato di guardare al provvedimento, magari cercando di contribuirvi, avendo, per contro, come punto prioritario di riferimento il merito dei problemi e l’esigenza di affrontarli in funzione della vita dell’istituzione. Salvo trovarsi, additato, a quel punto, alla generale deprecazione. Bene o male, l’obiettivo è stato comunque raggiunto. Anche se le resistenze e le difficoltà non cesseranno d’incanto. E anche se, per molti aspetti, come dicevo all’inizio, le difficoltà “vere” e maggiori cominciano adesso».