Il sussidiario ha dato largo spazio ai commenti sui progetti per la valutazione presentati a metà novembre, che hanno se non altro avuto il merito di aprire un largo dibattito. Poiché faccio parte del Comitato che li ha elaborati, approfitto dell’ospitalità per qualche considerazione personale di cui, come si dice in questi casi, sono la sola responsabile.
Vorrei partire dal fatto che lo scopo del nostro lavoro era (è, perché continuiamo a lavorare) quello di proporre un sistema di valutazione della scuola di cui l’Italia è colpevolmente, ma non inspiegabilmente, priva: ci ha spinto ad affrontare prima il tema del “merito” l’urgenza di dare attuazione alla cosiddetta “Brunetta”, che prevede la valutazione dei dipendenti della pubblica amministrazione, cui gli insegnanti non solo appartengono, ma fervidamente desiderano continuare ad appartenere, con un meccanismo del tipo “sindrome di Stoccolma”: peggio lo Stato li tratta, e più desiderano restare statali. Alla valutazione, o se si preferisce alla divisione in fasce di merito, corrisponde una premialità.
Su questo ci sono state parecchie resistenze, perché quasi tutti temevamo che il fuoco del dibattito si sarebbe concentrato sui premi, come è puntualmente avvenuto, distogliendo l’attenzione dal problema centrale. L’assicurazione che la premialità aveva carattere sperimentale, e sarebbe quindi stata controllata e valutata a sua volta, anche per fornire elementi da utilizzare a regime, ci ha convinto a formulare un’ipotesi.
Ora, preghiamo i nostri venticinque lettori di credere che, pur avendo tutti i limiti collegati alla fallibilità della natura umana, gli estensori dei progetti non sono né inesperti né totalmente decerebrati, e quindi, pur avendo cercato di formulare proposte che tenevano conto di alcune fondamentali acquisizioni della ricerca valutativa, delle esperienze già in atto e della peculiarità della situazione italiana, ci aspettavamo delle resistenze, e contemporaneamente speravamo in qualche utile suggerimento. Le prime sono state di gran lunga più numerose dei secondi, come si può vedere anche dall’articolo “Il flop dei voti ai prof: niente pagelle su di noi” a firma Corrado Zunino uscito ieri su Repubblica.
L’articolo di Giovanni Cominelli comparso su queste pagine rappresenta un esempio di equilibrio fra critiche e osservazioni costruttive: lo stesso non si può dire dell’articolo di Giorgio Israel comparso su Il Giornale, in cui prevale il versante distruttivo. Entrambi gli autori, però, partono da tre considerazioni che mi trovano d’accordo: la valutazione è necessaria, non può limitarsi a singoli aspetti (deve essere “di sistema”) e deve essere esterna, osservazione condivisibile che però confligge con la brevità dei tempi, che rendeva difficoltoso identificare o formare dei valutatori capaci, e con le prevedibili resistenze dei sindacati, che si sono manifestate con rara sagacia in un tiepido assenso formale seguito da una vibrante raccomandazione a boicottare la sperimentazione.
Da qui però le posizioni divergono. Cominelli, che ha una lunga e consapevole esperienza di scuola, evidenzia il ruolo negativo dei sindacati, e parla di “colpevole ingenuità nel rapporto con i sindacati” per uno “smodato bisogno di consenso”. È possibile: ma visto che l’esperienza dice che chi tocca gli insegnanti muore, è comprensibile il tentativo di aggirare la morte violenta, forse in favore dell’eutanasia… Può darsi che la premialità proposta rappresenti, come si dice in milanese, “una zucca di latte”, ma poteva essere l’occasione perché gli insegnanti che non si sentono rappresentati da organizzazioni sindacali che tutelano il piatto di lenticchie scambiandolo con la primogenitura, cominciassero a sostenere il loro diritto a essere valutati.
Ma valutati da chi (e non tanto “come”)? Comensoli sostiene, e non a torto, che potrebbe essere il dirigente, come in passato: e tutti sappiamo che se chiedessimo al dirigente, ma anche agli insegnanti, alle famiglie, agli studenti di una qualsiasi scuola, quali sono i due o tre insegnanti veramente bravi (non “migliori” di altri, non si faranno graduatorie) lo sanno benissimo: poi, magari con in palio qualche soldo, forse non farebbero i nomi. Per avere maggiori garanzie di prevenire gli errori, più che di obiettività (io francamente il dirigente dedito alla pratica sistematica del familismo amorale e alla premiazione del docente mentecatto e incapace non lo vedo tanto) gli abbiamo affiancato due docenti: è vero che questo ricorda il Comitato previsto dai Decreti Delegati, ma il fatto che non sia mai stato attuato non significa re ipsa che fosse sbagliato.
Quanto al ddl 953 “progetto Aprea”, caduto nel dimenticatoio benché – o forse proprio perché – avesse ricevuto un vasto consenso trasversale, sono totalmente d’accordo che non ha senso parlare di una riforma “a fettine” e che la valutazione, delle scuole e degli insegnanti, e anche del Ministero e delle politiche educative, come avviene nei paesi dove le agenzie di valutazione sono un soggetto terzo, deve essere inquadrata in un progetto più complesso e globale, che si colleghi all’autonomia e alla riforma della Costituzione del 2001: ma, al momento, questo non pare realistico, e l’alternativa sarebbe stata l’immobilismo.
È vero che la “vasta necropoli” delle sperimentazioni ministeriali spalanca le sue tombe accoglienti, ma abbiamo scelto, non senza discussioni, di rischiare con una sperimentazione sicuramente perfettibile, purché si riesca a farla partire. Il “no simbolico e politico” di cui parla Cominelli potrebbe più utilmente diventare un “sì, ma sarebbe meglio…”. Possiamo sperare? Buon anno.