Tento qualche considerazione sul dibattito scaturito dalla proposta ministeriale di sperimentazione della valutazione dei docenti. Anche se fuori dal sussidiario ne trovo ben poco!
1. Nelle province di Torino, Napoli, Cagliari e Milano molti dirigenti scolastici stanno tentando “strategie” varie per affrontarla nei Collegi docenti, in modo da non ottenere un rifiuto immediato, prima ancora di discuterne. In moltissime scuole il rifiuto ha bloccato ogni discussione seria, così da fare temere un flop prima di partire. In altre (rare), da tempo timidi tentativi di autovalutazione dei risultati raggiunti hanno faticato a prendere piede. Nel nuovo contratto delle scuole cattoliche legate all’Agidae, per la prima volta in un accordo sindacale entra la valutazione dei docenti ed un riconoscimento dei meriti (e pare che a proporli siano stati i gestori).
L’argomento scotta: chi al ministero o nelle scuole ha tentato di affrontarlo, per introdurre strumenti in proposito, si è dovuto leccare le ferite. Anche in questa vicenda della sperimentazione ministeriale se ne è vista la ragione: un certo mondo sindacale conservatore, che, pur essendo minoritario, rappresenta una cultura maggioritaria nella docenza, con buona pace di ricerche e sondaggi. Infatti, in presenza di pochi decisi a rifiutare il confronto, la maggioranza segue. Purtroppo, anche questa volta, come già accaduto, pure il progetto ministeriale (per i testi sommari che sono stati divulgati “clandestinamente”) non aiuta, per diverse fragilità, ambiguità e contraddizioni.
2. Tuttavia in quelle provincie, nonostante il pericolo dell’ostilità e la precarietà ministeriale, diversi dirigenti si stanno muovendo, convinti che, tutto sommato, non solo è opportuno, ma è necessario tentare. Hanno ragione: io spero che se la cavino. In questo, associazioni come DiSAL sono impegnate ad aiutare, anche se il ministero, come ha sempre fatto in questi anni, si è guardato bene dal cercare alleati nelle professioni della scuola.
In questo pur precario tentativo ci potrebbe essere in gioco la possibilità di avviare un processo di cambiamento (è il risultato atteso n. 2 del progetto) che aiuti a far nascere nella scuola una cultura della responsabilità. Molti se la assumono (per merito di queste minoranze le scuole funzionano), ma tutto concorre a non fare del loro lavoro una cultura professionale.
Che docenti e dirigenti (fatte salve le buone eccezioni, e nonostante proclami e ricerche) non amino essere valutati è cosa ben risaputa. Non è facile discutere in Collegio docenti strumenti o proposte che facciano uscire da una situazione nella quale gli unici ad essere valutati sono gli alunni, unici quindi sempre invitati “ad essere autonomi e responsabili” come si sente ripetere nei Consigli di classe. È una situazione che non solo sperimenta il genitore o l’alunno a colloquio per affrontare le proprie difficoltà, ma della quale sono dolorosamente consapevoli quei dirigenti e docenti coscienziosi e seriamente impegnati con la propria professione.
Una visione “impiegatizia” del mestiere, consolidata da decenni di connubio burocrazia/ sindacato, rende pressoché impossibile il riconoscimento di responsabilità effettivamente esercitate, di diversità di prestazioni e quindi di qualità professionali.
Ne sono esempio lampante la gran parte delle Contrattazioni Interne di Istituto, dove le risorse sono sempre distribuite “a tutti in parti eguali” ed un preside che voglia concordare riconoscimenti diversificati deve mettere in conto lo scontro sindacale, quando non denuncie e conciliazioni, sapendo bene che non troverà aiuto nell’apparato amministrativo della burocrazia, perché anche i Contratti regionali e nazionali sono ispirati agli stessi criteri.
Per questo credo che il preside o il docente che accetteranno coraggiosamente di tentare l’impresa – ripeto: nonostante la precarietà – contribuiranno sicuramente a suscitare almeno il problema della responsabilità: “alla fine il mio, il nostro lavoro a chi deve rispondere?”.
3. Nell’attuazione della sperimentazione si tengano però almeno in conto alcune condizioni, senza le quali un pur timido inizio è destinato a rivelarsi inutile. E non c’è nulla di peggio che fare una battaglia destinata a perdersi.
a. Occorre evitare uno strumento, una procedura macchinosi, burocratici, come è stata la sperimentazione Sivadis per i dirigenti. Questo aspetto per ora nella sperimentazione pare evitato. Dico “pare” perché gran parte degli strumenti, degli obiettivi, degli indicatori (misero quel riferimento all’art. 27 del Ccnl scuola!) sono sconosciuti.
b. Non esiste un serio modello per valutare (e non “misurare” come dice il progetto) il rendimento del personale docente, senza contestualmente valutare i dirigenti scolastici e, dall’esterno, i livelli di apprendimento raggiunti in una scuola. Salvo attuare una semplice operazione di immagine. Ma da questa chi pensa di guadagnarci? Tutto sommato questo progetto lascia sorgere questo timore. Con quali strumenti opererà il Nucleo? Facendo riferimento a quali parametri (non si risponda con l’art. 27)? E in base a quale magia un Nucleo fatto esattamente come l’antico e assolutamente inutile Comitato di valutazione (pur limitato alla sola immissione in ruolo) dovrebbe improvvisamente produrre risultati? E quale ruolo deve esercitare il preside rispetto a quello dei docenti? E quel povero presidente del Consiglio di Istituto che “assiste” fino a che punto deve “reggere il moccolo”? E l’esperto (quale, poi?) del ministero che assiste pure lui senza diritto di voto sarà lì solo ad assistere? Che mancanza di chiarezza delle responsabilità.
Il fac-simile del Comitato di valutazione (Nucleo) non ha funzionato perché non poteva funzionare: come è possibile che gli eletti giudichino i propri elettori? I colleghi non correggeranno eventuali “errori” del dirigente, ma difenderanno sempre il proprio simile. Ho personalmente tentato di sottoporre (con elementi provati) almeno il rinvio dell’anno di prova: i docenti eletti mi hanno sempre bocciato la proposta. La cultura corporativa non si supera con il volontariato. È la stessa ragione per la quale i collaboratori del dirigente scolastico non dovranno mai essere eletti dal Collegio, bensì scelti da questo, pena l’inefficacia dell’azione.
c. Per non falsificare la validità del risultato della sperimentazione, si doveva cercare fin dall’inizio di integrare tutti gli aspetti in gioco: i docenti, i dirigenti, i processi dell’istituzione scolastica, i livelli di apprendimento raggiunti, l’efficacia dell’apparato amministrativo provinciale e regionale. Cioè tentare una sperimentazione complessiva in un’istituzione scolastica e nei soggetti che ne condizionano il funzionamento.
d. Per un sistema efficace occorre evitare di moltiplicare organi, con equivocità e confusione di competenze. Da questo punto di vista il “Nucleo di valutazione” (anticipato dall’art. 10 del pdl Aprea) confonde. Non chiarire i compiti dei soggetti in gioco e avere docenti eletti da chi deve essere valutato (si ha presente come vanno queste elezioni?) è fuorviante sia rispetto agli esiti che rispetto al modello da delineare. I sistemi utilizzati altrove indicano altre strade: l’autovalutazione (che non può avere conseguenze di carriera e di stipendio) è interna e serve all’automiglioramento della comunità scolastica; la valutazione degli apprendimenti da una parte e, all’altra, quella delle professioni (ai fini della carriera e del riconoscimento del merito) è esterna, con soggetti appositamente preparati, con ruoli ben specifici e diversi, pur nei diversi modelli nazionali.
4. Chiariti questi aspetti minimali, restano comunque (in funzione del futuro modello da costruire) dei fattori di sistema imprescindibili, che prima o poi occorrerà affrontare, pena l’imbarcarsi in un lavoro inutile. Almeno per il miglioramento delle scuole, dei docenti e dei dirigenti.
A. Rispetto ai docenti ed ai dirigenti occorre un’effettiva “premialità” sia di carattere economico che di sviluppo professionale: uno stato giuridico della professione; una carriera possibile; una penalizzazione economico-giuridica nei casi di più grave inadeguatezza. Cose attualmente inesistenti. Le sole “corone di alloro” non aiutano a costruire processi e modelli. Certo che la questione premialità è secondaria, ma solo in quanto effetto e non origine della valutazione. La stima è innanzitutto una dinamica relazionale. Ma una valutazione professionale, una “stima” (valutare è “dare valore”) alla quale non conseguano riconoscimenti (non simbolici – una mancia – ma funzioni, carriera, salario) mortifica la professionalità. Quindi la questione non è secondaria, rispetto all’efficacia del modello.
b. Il vero cambiamento verrà col passaggio del reclutamento dei docenti e dei dirigenti a concorsi indetti dalle istituzioni scolastiche, con incentivi significativi per le situazioni più disagiate (come mi pare si faccia coi giudici per le procure o i tribunali più difficili). Solo così si potrà instaurare la lenta maturazione di un indispensabile senso di appartenenza alla comunità scolastica, insieme al costituirsi di “comunità professionali”. Nessun meccanismo valutativo o premiante otterrà, più di questo senso di appartenenza (non ad un’istituzione, ma ad una comunità educativa) la dedizione della persona ad un compito fatto eminentemente di relazioni personali e di relazioni con la propria comunità locale.
c. Infine (e tutti i sistemi europei lo dimostrano) il più efficace sistema di valutazione esigerà due fattori: l’esistenza di una “regolata” ma reale competitività tra tutte le scuole del sistema pubblico, messe tutte nelle stesse condizioni di partenza, tali da permettere un’effettiva libera scelta della famiglia, unica alla fine ad aver titolo effettivo nel valutare la scuola; un sistema di valutazione “esterno” ed indipendente dalle istituzioni scolastiche e dall’apparato amministrativo, che fornisca anche strumenti e momenti di autovalutazione interna. A questo fine mi pare fuorviante il riferimento del progetto ministeriale al corpo ispettivo.
5. Un accenno ai soggetti. Come non dovrà essere il preside, ultimamente, a scegliere gli insegnanti, così non deve essere lui a valutarli. Tra l’altro, attualmente, con quale autorevolezza può una figura non valutata da nessuno, valutare i docenti con i quali deve costruire una comunità professionale? A meno che si faccia operazione di immagine, come lo era, alla fine, la vecchia qualifica. Certo che il buon dirigente conosce bene i docenti della propria scuola. Il dirigente scolastico (come i colleghi, i genitori, gli studenti delle superiori) debbono essere parte indispensabile del percorso valutativo. Ma nessuno di questi deve essere “il” valutatore, pena la distorsione di tutti i rapporti interni alla scuola. La valutazione del merito utilizzerà tutti gli elementi interni, che il soggetto esterno apprezzerà diversamente, ma deve restare ultimamente esterna. Se un giorno esisterà un Ordine professionale dei docenti allora il giudizio dei pari potrebbe avere un senso: ma parliamo di utopie. E poi mi sembra che gli Ordini esistenti non ci confortino molto in questo senso.
In conclusione, nonostante le difficoltà elencate credo valga comunque la pena tentare. La situazione della scuola italiana è in tale difficoltà che se qualcuno riuscisse a condurre con serietà culturale e professionale, con chiarezza comunicativa il tentativo della sperimentazione, innescherebbe un dibattito sul problema delle responsabilità nella scuola.
L’esito dipenderà dalla modalità del processo che si mette in atto, dalla scelta dei suoi protagonisti, dal rispetto dei fattori sopra accennati, dalla capacità di comunicarne con trasparenza gli esiti, anche nel ruolo dei soggetti coinvolti. Purtroppo questa chiarezza finora è mancata.
Tutti, dirigenti, apparato amministrativo, docenti, famiglie, studenti e comunità locale, devono essere ritenuti corresponsabili nell’interesse ad avere “buoni docenti”, a sostenerli nell’impresa formativa, ad apprezzarli e stimarli laddove esiste dedizione, capacità e impegno.